10-12 luglio 1921: le Tre giornate di Viterbo, la città in stato d’assedio

di Silvio Antonini

P.zaRocca12.7.1921FuneraliPesci

Tre giornate di Viterbo, 10-12 luglio 1921. 

L’Antefatto

Vivo era certamente il ricordo degli accadimenti del 2 maggio. Nel pomeriggio di quel giorno, la mobilitazione popolare aveva imposto lo scioglimento del comizio fascista per le Politiche in piazza del Teatro. I fascisti, sebbene scortati da due cordoni di carabinieri, per coprire la riturata verso la loro sede, palazzo Costaguti, via Principe di Napoli, 28, attualmente via Maria SS. Liberatrice, avevano iniziato a sparare sulla folla dei contestatori. Rimaneva ferito il tredicenne Comunardo Pizzichetti, mentre Antonio Prosperoni, un muratore di 21 anni, forse estraneo ai fatti, cadeva, colpito da un proiettile mentre era di ritorno dal Cimitero ove stava lavorando. E non sono giunti a noi incartamenti processuali per sapere se sia stata fatta o meno giustizia su questo delitto.

Dopo l’evento luttuoso, le associazioni dei combattenti e mutilati – invalidi di Viterbo avevano convocato presso la loro sede i rappresentanti di tutti i partiti presenti in città, facendo firmare loro un appello per porre fine alle violenze di parte, poi divulgato con i manifesti e la pubblicazione sul periodico combattentistico “L’Azione”. Non era, però, che l’inizio.

 

10 luglio: Tommaso Pesci, “Spento da brutale violenza

In questa giornata, i fascisti hanno fissato la data per l’Inaugurazione del loro gagliardetto. Una cerimonia, tra le tante, che i fascisti usavano un po’ a pretesto per provocare e, in fine, espugnare i centri considerati ostili. Già in mattinata giungono delegazioni forestiere dei Fasci, tra cui quella di Orvieto, che si distingue per provocazioni e violenze contro i cittadini. La situazione sembrava tuttavia gestibile e sottocontrollo.

Per l’occasione i fascisti hanno un percorso obbligato: il rettilineo dalla loro Sede all’hotel Grandori, in piazza della Rocca. Le forze dell’ordine si dispongono a cordone per impedire i contatti con le vie d’accesso, mentre i fascisti lamentano che  alla Casa del popolo/ Camera del lavoro, in via della Pace, 5, dinanzi alla tuttora esistente Caserma dei carabinieri, gli operai si starebbero organizzando per un attacco.

Alle ore 16.30, consumato il banchetto al Grandori, i fascisti si preparano per il discorso celebrativo ma, come stanno per salire sul camion del comizio, uno di loro, un orvietano non identificato, inizia a gridare che dei viterbesi gli avevano strappato dal petto il distintivo fascista. I cordoni delle forze dell’ordine si sciolgono come neve al sole del luglio incandescente e i fascisti sono liberi di fare scorribande per la città: rapinano, saccheggiano, picchiano, accoltellano e sparano. In via Lucchi, traversa di via Cairoli, un contadino sta sull’uscio di casa. Il Regio procuratore dice che stava, come tutti, per chiudersi in casa dinanzi al trambusto, voci popolari che stesse richiamando il figlio, un canto lo vuole, pascolianamente, di ritorno dal lavoro. È Tommaso Pesci, socio della cooperativa Toniolo. Inerme, immobile: gli sparano in faccia, muore sul colpo. A premere il grilletto un fascista orvietano, per cui il Regio procuratore aveva immediatamente spiccato mandato di arresto senza sapere se fosse stato eseguito o meno. Anche per questo omicidio non sono giunti a noi incartamenti processuali. Di Pesci ci resta la tomba, nella parte storica del Cimitero di S. Lazzaro, con la lapide che recita: “QUI FRA IL COMPIANTO DEI BUONI/ ANELANTI ALLA PACE CIVILE/ FU INUMATO/ A CURA DEL COMUNE/ TOMMASO PESCI/ QUARANTACINQUENNE/ AGRICOLTORE INTEGERRIMO/ OTTIMO PADRE DI FAMIGLIA/ SOCIO DELLA COOP[ERATIVA] AGR[ICOLA] G[IUSEPPE] TONIOLO/ SPENTO DA BRUTALE VIOLENZA/ IL X LUGLIO MCMXXI/ – / LA CONSORTE I FIGLI/ ADDOLORATISSIMI/ P. P”

 

11 luglio: la città sotto assedio

Non appena diffusasi la notizia dell’assassinio del Pesci, la città insorge, le delegazioni fasciste forestiere sono scacciate, mentre i fascisti del posto, pochi e ben identificabili, sono inseguiti e percossi dalla popolazione inferocita. Viene proclamato lo sciopero, si chiudono tutte le attività ed i negozi. Viterbo, scrive il Procuratore, sembra “una città in stato d’assedio”.

In Sottoprefettura si forma il Comitato di difesa cittadina (Cdc), composto da partiti, sindacati, associazioni economiche e di categoria, con l’esclusione dei fascisti, a scopo sostanzialmente pacificatorio.

Nel frattempo, tra i combattenti di guerra si era fatta largo l’idea, al fine di contrastare le incursioni fasciste, di costituire in città una sezione degli Arditi del popolo, l’organismo di difesa proletaria che aveva debuttato a Roma giusto cinque giorni prima.

In mattinata, una delegazione si era quindi recata al Direttorio nazionale per chiedere istruzioni al Capo Argo Secondari, che inviava a Viterbo Nestore Tursi ed un certo Ten. Randolfi, di cui non si hanno altre notizie.

In serata, presso la Camera del lavoro/ Casa del popolo, veniva così aperto il Registro per le adesioni all’Associazione viterbese fra gli Arditi del popolo. Se ne raccoglie un centinaio, proveniente dai diversi partiti ed associazioni, con la disponibilità persino del Circolo cattolico S. Rosa.

Il Direttorio eletto risulta composto da Celestino Avico, 21 anni, Agrimensore, ten. del 154° Fanteria, ferito al Fronte, comunista, durante il Ventennio Perseguitato politico, esule, confinato e, in fine, tra i protagonisti della Resistenza romana; Giulio Bordoni, 25 anni, ten. Cavalleggeri di Foggia; Domenico Adolfo Busatti, eletto Capo – direttorio, 23 anni, studente universitario, ten. del 60° Fanteria, ferito sul Carso, membro del locale Direttorio dell’Associazione nazionale combattenti, repubblicano e legato alla massoneria di rito scozzese.

Gli ardito – popolari si preparano quindi al debutto per la mattina seguente, in occasione dei funerali di Tommaso Pesci.

 

12 luglio: Jaromir Czernin, “Innocente vittima di cuori infuocati”

La mattina si tengono le esequie di Pesci, assassinato dai fascisti orvietani due giorni prima. Tutta la città accorre a dare l’ultimo saluto al concittadino barbaramente trucidato. Gli Arditi del popolo, negli unici scatti che li documentano inquadrati, giurano dinanzi al feretro, issando pugnali di baionetta e bastoni di Malacca (acquistati, questi, per l’occasione con una sottoscrizione pubblica), e gli fanno la scorta. Il 60° Fanteria è alle porte della città, a mo’ di cordone, con mitragliatrici e cavalli di Frisia per impedire il passaggio di armati ed autoblindo. Si teme l’incursione fascista in grande stile. Il Cdc redige un appello alla calma e lo fa distribuire sottoforma di volantino durante le esequie. Questo non fa in tempo ad essere diffuso, quando in Sottoprefettura, dove il Cdc si sta riunendo, la “signorina del telefono” si precipita per comunicare la ricezione d’un telegramma cifrato che comunica l’arrivo di fascisti armati alla Stazione di porta Romana cui la Forza pubblica si è limitata al sequestro di qualche arma senza procedere all’identificazione e al fermo. La notizia si diffonde in un batter d’occhio: la popolazione, non avendo più fiducia nelle istituzioni, provvede direttamente alla difesa, salendo sulle mura, con le scale a pioli.

I funerali terminano ma resta il presidio militare, così come la popolazione sulle mura: giungono notizie delle violenze commesse dai fascisti nelle aree limitrofe e si teme una loro irruzione. Gli Arditi del popolo erano rimasti a terra, con il ruolo soprattutto di staffette tra i vari punti di difesa.

In piazza della Rocca, l’Esercito nota la presenza di cinquemila persone in armi, in una città dove le licenze di porto d’arme sono appena 900. Un gruppo di armati, capitanato dal mutilato di guerra Zefferino Barbini, si reca nelle case dei benestanti per chiedere armi, ottenendo qualche sciabola e qualche vecchio schioppo, tutti puntualmente restituiti, e, in qualche caso, soldi per la giornata di lavoro persa da quanti sono sulle mura. Non c’è solo la mobilitazione armata. Le donne, soprattutto le abitanti di via Lucchi, dove viveva ed era stato ucciso Pesci, si adoperano per far pervenire alle postazioni di difesa pane, guanciale e vino. Giorgio Alberto Chiurco, nella sua apologetica Storia della Rivoluzione fascista, avrebbe scritto: “Nella città l’elemento comunista era completamente padrone della situazione”

In questo clima di concitazione, verso le 16,00, giunge, provenente da Orvieto, un’Alfa Romeo torpedo guidata da Lucille Beckett Frost, nobildonna britannica; a fianco il figlio maggiore Paul Czernin e dietro i due più piccoli: Jaromir di quasi sedici anni, Edmund di quindici e lo chauffeur Enrico Pastecchi. Il padre, Otto, di origini boeme, assente come Manfred, il figlio più piccolo, era stato Ambasciatore dell’Austria – Ungheria presso la Santa Sede. I turisti, che ad Assisi avevano appena ottenuto l’indulgenza plenaria, sono di ritorno a Roma, dove vivevano, e vogliono visitare la città. L’Esercito, a porta Fiorentina, impedisce loro l’ingresso e consiglia di proseguire la Cassia costeggiando le mura, senza però fornirgli una scorta che li rendesse riconoscibili a quanti appostati a difesa della città. Infatti l’auto, i cui passeggeri sono evidentemente scambiati per fascisti che erano riusciti a passare il blocco, dall’altezza di porta Murata viene fatta segno di colpi provenienti sia da destra, dalle mura, sia da sinistra, cioè dalla ferrovia Roma – Viterbo. La fucileria termina all’altezza delle rovine del palazzo di Federico II, quando viene compreso l’equivoco. I passeggeri sono tutti feriti. Jaromir è morto per un colpo che gli ha fatto esplodere la scatola cranica. La macchina viene fatta immediatamente ripartire con i feriti a bordo ed un carabiniere per scorta, verso l’Ospedale grande. Ciononostante, a pazza della Morte, l’auto, nuovamente equivocata, veniva ancora fatta segno di colpi di fucile.

La città era ripiombata nel caos. Un gruppo di ragazzi sale sulla Torre civica del Comune e, per chiamare all’adunata, suona la campana maggiore talmente forte che si rompe. Così, un gruppo di armati si reca nelle varie parrocchie per chiedere la disponibilità dei rispettivi campanili, anche come torri di vedetta.

Terminano così quelle che Busatti, il Capo degli Arditi del popolo, avrebbe chiamato nel suo diario le Tre giornate di Viterbo.

 

“L’Esempio di ciò che bisogna fare”

Nel processo per la morte di Jaromir, in cui si era tentato in ogni modo di incastrare gli Arditi del popolo, le indagini si concentreranno sul tratto di mura della Gabbia del cricco, oggi non più esistente. Sarà condannato solo il calzolaio Lamberto Andreoli, Mastrumberto, che si trovava in quel tratto con altri uomini armati, con il generico capo d’imputazione di “complicità non necessaria”.

Sulla massicciata corrispondente all’altezza in cui si era fermata l’autovettura c’è una croce, distrutta dai bombardamenti alleati e restaurata agli inizi anni Ottanta, grazie all’impegno di Renato Busich, con su scritto “ALLA MEMORIA DI JAROMIR CZERNIN/ QUI CADUTO IL 12.7.1921”. Nel Cimitero di San Lazzaro si trova la tomba, la monumentale n. 58, senza l’ovale, che è un’usanza mediterranea, con l’epigrafe dettata dalla madre Lucille: “IN MEMORIA/ DI/ JAROMIR CZERNIN/ -/ STRANIERO/ PASSANDO PER VITERBO IL 12 LUGLIO 1921/ CADDE A 15 ANNI/ INNOCENTE VITTIMA DI CUORI INFUOCATI/ DA ODI E RANCORI/ BEATI I PURI DI CUORE/ PERCIOCCHÉ VEDRANNO IDDIO”.

Le Tre giornate di Viterbo, assieme ad altri fatti che si verificarono in quel luglio 1921, in particolare Sarzana (il 21) e la Strage di Roccastrada (il 24), avrebbero segnato la prima battuta d’arresto del movimento fascista e, quindi, la sua prima entrata in crisi. A preoccupare i fascisti non tanto lo scontro diretto con gli ardito-popolari, che nei fatti non c’era stato, quanto il fatto che le popolazioni, da questi guidate, si fossero sollevate imponendo alle forze dell’ordine di contrapporsi agli squadristi fascisti, rompendo cioè quella connivenza che durava, quasi ininterrottamente, da diversi mesi.

In seno al fascismo sarebbe venuta a crearsi una divergenza tra Benito Mussolini, più attento alla diplomazia e ai rapporti con le altre forze liberal – conservatrici, e i ras di provincia, propensi alle maniere forti. Quasi una scissione per cui Mussolini giunge a chiedere una sorta di governo di solidarietà nazionale a socialisti e popolari. Il fascismo si sarebbe invece salvato il 3 agosto, con la firma dei Patti di pacificazione, e poi, attraverso il III congresso nazionale, in novembre a Roma, con il totale risanamento delle fratture avute in estate e la nascita del Partito nazionale fascista.

Mussolini, infatti, aveva scritto su “Il Popolo d’Italia” del 23 luglio: “Gli ultimi tragici avvenimenti che da Viterbo a Sarzana hanno funestato la vita del fascismo italiano, rappresentano lo sbocco logico di una crisi che da alcuni mesi travaglia la nostra organizzazione”. Un Antonio Gramsci invece entusiasta, dalle colonne de “l’Ordine nuovo” del 21 luglio aveva dichiarato: “Viterbo e Sarzana hanno dato l’esempio di ciò che bisogna fare. Le popolazioni sanno quello che non hanno da aspettarsi dai dirigenti nazionali; alle forze locali spetta il compito di pensare alla propria difesa”

 

Per tutti i riferimenti bibliografici e archivistici citati nell’articolo:
Silvio Antonini, Faremo a fassela, Gli Arditi del popolo e l’avvento del Fascismo a Viterbo e nell’Alto Lazio, 1921-1925, Viterbo, Sette città, 2011.

Nella foto, i funerali di Tommaso Pesci in piazza della Rocca, il 12 luglio 1921.

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