Recita un vecchio adagio: le disgrazie non arrivano mai da sole. Vero. Preferiscono viaggiare in compagnia, spesso mano nella mano. Lo fanno comunque in tempi rapidi. Tra la tarda primavera del 1348 e l’estate del 1349 – annus horribilis – due avvenimenti devastano Viterbo e dintorni: l’ennesimo e inevitabile appuntamento con la “morte nera” prima e, appena qualche mese più tardi, un disastroso terremoto che sconquassa, con tanto di morti, una fetta del centro storico. La peste, per la verità, è molto spesso un male di importazione e anche nella circostanza arriva con le galee veneziane e catalane che fanno la spola con l’Oriente. Tra le spezie, le stoffe, le mercanzie più varie si annidano i letali batteri che poi vanno a insinuarsi negli umani. Quando la loro presenza viene scoperta è troppo tardi: la segnalano macchie nere su tutto il corpo e l’ingrossamento delle ghiandole ascellari e dell’inguine. Tre giorni e il malcapitato se ne va all’altro mondo. Il colpo di falce della “morte nera” è così tagliente che, stando ai pur vaghi conteggi dei cronisti del tempo, Firenze perde tre abitanti su cinque, Bologna due su tre. Nel territorio di Siena le vittime sono quasi 80.000, nel Perugino arrivano a 100.000. Orvieto registra 500 morti al giorno. Per Viterbo il rendiconto è altrettanto pesante. In questo caso mancano i numeri, ma probabilmente non si è lontani dal vero nell’affermare che sparisce almeno metà della popolazione. C’è chi azzarda addirittura i due terzi. Resta il fatto che per mesi non si trova più un prete per officiare funerali e qualsiasi rito religioso. Niente sacerdoti e chiese chiuse. Ovviamente, c’è chi si industria a dare la propria spiegazione sulle cause dell’insorgenza e della diffusione dell’epidemia. Tutta colpa di una malefica congiunzione astrale assicurano alcuni; no, è l’ira divina che si abbatte sui peccatori, sostengono altri. In realtà, è quasi sempre un ratto che viaggia in clandestinità su qualche bastimento a trasmettere i batteri all’interno di sudice case, ad avvelenare le già putride acque, a infiltrarsi tra i poveri vestiti e gli utensili. Il capolinea del percorso è sempre e inevitabilmente l’uomo. I medicamenti e le ricette miracolose sono i più disparati e disperati: si va dagli impacchi di essenza di trementina a tisane di miscugli di erbe selvatiche, a pozioni di bolo armeno che altro non è che un preparato a base di argilla e che contiene ossido di ferro. Intrugli. L’unica salvezza, garantisce la Chiesa, passa inevitabilmente per la via del cielo e dunque servono preghiere, processioni e, in definitiva, un modus vivendi più morigerato. Comunque sia con la fine di settembre il flagello abbandona la Tuscia per risalire verso le regioni del Nord. Viterbo può tornare a respirare, lo fa lentamente perché sotto shock e spopolata, tanto da dover chiamare gli abitanti dei castelli del circondario. Comincia a rianimarsi a scapito delle contrade che iniziano viceversa a morire. Neppure il tempo di riacquistare almeno l’antico aspetto precedente la peste che il cuore della città viene collassato da un tragico terremoto. E’ il 9 settembre 1349, ore 9 di un mercoledì. Piazza Santo Stefano, oggi delle Erbe, è gremita di folla in attesa del passaggio di una processione religiosa. Decine e decine di persone sono assiepate sul loggiato dinanzi alla chiesa omonima che guarda corso Italia. Un boato, immediatamente seguito da un sussulto della terra, fa crollare una torre che si erge proprio dinanzi alla chiesa. Molti i fedeli che vengono travolti e sepolti. Pochi attimi e un altro tuono sordo fende l’aria fino a coprire i lamenti e le invocazioni di aiuto che filtrano dalle macerie di Santo Stefano. Viene giù anche una seconda torre che frontalmente sovrasta la chiesa del Suffragio, lungo il Corso. Va a schiantarsi contro le case che costeggiano via della Sapienza. Decine le vittime dei crolli. Unico a salvarsi tale Coccapane che riesce miracolosamente a restare in vita per tre giorni e tre notti, alimentato soltanto attraverso un buco individuato tra le macerie. I danni sono pesantissimi e vanno ad accumularsi a quelli provocati dall’epidemia. La paura sfiora il terrore, amplificata dalle scosse di assestamento che si susseguono per 48 ore, appesantendo il bilancio del disastro. Fuga in massa della popolazione verso le campagne in cerca di una salvezza, qualunque essa sia. La ripresa è fiacca però confortata dal passaggio sulla Francigena dei tanti pellegrini diretti a Roma per il Giubileo del 1350. C’è chi sentenzia: dopo la punizione ecco il segno del perdono e della infinita benevolenza del Signore.
1348-1349 per Viterbo annus horribilis tra pandemia e terremoto, poi la ripresa con il Giubileo
di Luciano Costantini