Un pontefice, un rettore del Patrimonio di san Pietro, un capitano di ventura. Insieme uniti, all’alba del XV° secolo, per spolpare quel che resta dei beni di Viterbo, dilaniata dalle interminabili lotte intestine e dall’immancabile raid dell’immancabile peste. Il pontefice è Bonifacio IX°, rampollo della antica e nobile famiglia napoletana dei Tomacelli legata al clan Capece; il rettore è Giovannello Tomacelli, fratello del Santo Padre; il mercenario al soldo della Chiesa è il forlivese Mostarda di Strada o della Strada. Il primo ha necessità di mantenere, in senso letterale, una corte pontificia che non è esattamente un esempio di parsimonia; il secondo non deve far mancare le risorse per far funzionare il regno terreno del fratello; il terzo è chiamato ad assicurare che la macchina dei proventi giri senza intoppi. Viterbo è alla canna del gas, comunque non in grado di far fronte alla crescente imposizione fiscale. Mostarda di Strada è un campione militare dell’epoca. Se lo contendono principi, conti e baroni. Naturalmente anche il papa. Stesso interesse con il quale oggi i top team si disputano i servigi degli assi del calcio o i produttori le star del cinema. Quando Bonifacio IX° gli affida il Patrimonio di san Pietro, di Viterbo in particolare, Mostarda controlla già le maggiori città dell’Umbria: Todi, Spoleto, Terni, Narni, Amelia. Tutte accomunate da un unico, gigantesco problema, quello di non poter pagare i balzelli imposti, che risultano sempre più onerosi, aggravati dalle spese di mantenimento sul campo delle soldatesche mercenarie. Così, in data 15 giugno 1404, Giovannello Tomacelli autorizza il condottiero a prendersi, manu propria, bestiame, vettovaglie, masserizie per soddisfare le esigenze militari e di governo. Le proteste dei viterbesi sono rapidamente per quanto bruscamente stroncate anche perché nel frattempo, Bonifacio IX° legittima l’operato del fratello Rettore e del suo fido capitano con una Bolla che, se possibile, risulta ancora più pesante: i cittadini insolventi saranno chiamati a rispondere di persona – perfino fisicamente – dei loro debiti. La città e il suo clero sono tassati per 1.700 ducati all’anno. A testimoniare l’arroganza del Mostarda una lettera inviata a palazzo dei Priori. Contenuti e toni sono più che eloquenti. Scrive, tra l’altro il capitano: “Sappiano tutti i nostri cari contribuenti ai quali pervenne la lettera di messer Ianni (Tomacelli), avvisati de le vostre rate con le vostre rate e dei termini in quali dovete pagare. Quindi vi prego di dare ordine che si paghi infallibilmente entro i tempi, avvertendo che non ci saranno più le agevolazioni avute in passato”. Roba che oggi farebbe il paio con le letterine di Equitalia. La città è in ginocchio, non resta che ricorrere all’argenteria di casa. Così il Comune è costretto a far scattare una sorta di “patrimoniale sul lusso”. Chi più ha e comunque chi più mostra, più deve pagare. E a pagare sono quasi esclusivamente le donne….o i loro mariti. Le cosiddette “leggi suntuarie” vengono calibrate sullo status economico e sociale delle diverse classi. L’elenco delle prescrizioni è lungo e dettagliato. Riportiamo quelle più significative: viene proibito alle donne di mostrarsi con collane d’oro, d’argento, di gemme. La violazione della norma costa fino a 25 libbre di paperini (una moneta coniata dalla zecca viterbese) per la nobildonna e 10 per la popolana. Mantelli e pellicce possono essere abbelliti da fregi smaltati, ma soltanto se il peso di questi non vada oltre le due once di argento. Niente cinture d’oro e d’argento, che superino le dieci once. Non possono sfuggire all’occhio attento del fisco le acconciature che rendono più leggiadri i lineamenti dei volti: non devono sforare il valore di sei fiorini aurei. Poi le norme che riguardano i cosiddetti “panni”: i ricami in argento lavorato non devono costare più di 25 soldi per oncia; assolutamente vietati gli ornamenti, pena 25 lire. Chi ne fa uso, qualunque sia il ceto di provenienza, va considerata come nobile e quindi l’ammenda è molto più salata. La scure fiscale del Comune evidentemente non risparmia il vestiario. Viene permesso l’uso della “cioppa” che è un ampio mantello maschile o una lunga veste femminile purché non superi i sei pollici di larghezza. Le multe vengono applicate alle doti delle mogli e se queste risultino nullatenenti, siano sono i mariti a pagare di tasca propria. I controlli sono puntuali e svolti nei giorni festivi allorché dame e damigelle fanno sfoggio delle loro bellezze naturali impreziosendole con vesti e gioielli. All’occhiuto controllo delle nuove regole, impostate dalla “patrimoniale sul lusso”, provvedono un notaio comunale incaricato dal Podestà e un orefice designato dai Consoli dei Mercanti. Una sorta di ronda cittadina che segretamente rileva le varie infrazioni e l’identità dei responsabili. La notifica arriva di lì a qualche giorno. Chi non è in grado di pagare o magari ritarda soltanto i termini deve fare i conti con il Mostarda. Il quale in tempi brevissimi e perentori dovrà fare anch’egli i conti con il Padreterno: nel settembre del 1405 sarà assassinato a Roma per mano degli Orsini. Il primo di ottobre anche papa Bonifacio lascerà questa terra. E il fratello Giovannello Tomacelli? Sparirà semplicemente da Viterbo.
1404: Viterbo in ginocchio, scatta la “Patrimoniale sul lusso” delle donne
di Luciano Costantini