1404: Viterbo in ginocchio, scatta la “Patrimoniale sul lusso” delle donne

di Luciano Costantini

Un pontefice, un rettore del Patrimonio di san Pietro, un capitano di ventura. Insieme uniti, all’alba del XV° secolo, per spolpare quel che resta dei beni di Viterbo, dilaniata dalle interminabili lotte intestine e dall’immancabile raid dell’immancabile peste. Il pontefice è Bonifacio IX°, rampollo della antica e nobile famiglia napoletana dei Tomacelli legata al clan Capece; il rettore è Giovannello Tomacelli, fratello del Santo Padre; il mercenario al soldo della Chiesa è il forlivese Mostarda di Strada o della Strada. Il primo ha necessità di mantenere, in senso letterale, una corte pontificia che non è esattamente un esempio di parsimonia; il secondo non deve far mancare le risorse per far funzionare il regno terreno del fratello; il terzo è chiamato ad assicurare che la macchina dei proventi giri senza intoppi. Viterbo è alla canna del gas, comunque non in grado di far fronte alla crescente imposizione fiscale. Mostarda di Strada è un campione militare dell’epoca. Se lo contendono principi, conti e baroni. Naturalmente anche il papa. Stesso interesse con il quale oggi i top team si disputano i servigi degli assi del calcio o i produttori le star del cinema. Quando Bonifacio IX° gli affida il Patrimonio di san Pietro, di Viterbo in particolare, Mostarda controlla già le maggiori città dell’Umbria: Todi, Spoleto, Terni, Narni, Amelia. Tutte accomunate da un unico, gigantesco problema, quello di non poter pagare i balzelli imposti, che risultano sempre più onerosi, aggravati dalle spese di mantenimento sul campo delle soldatesche mercenarie. Così, in data 15 giugno 1404, Giovannello Tomacelli autorizza il condottiero a prendersi, manu propria, bestiame, vettovaglie, masserizie per soddisfare le esigenze militari e di governo. Le proteste dei viterbesi sono rapidamente per quanto bruscamente stroncate anche perché nel frattempo, Bonifacio IX° legittima l’operato del fratello Rettore e del suo fido capitano con una Bolla che, se possibile, risulta ancora più pesante: i cittadini insolventi saranno chiamati a rispondere di persona – perfino fisicamente – dei loro debiti. La città e il suo clero sono tassati per 1.700 ducati all’anno. A testimoniare l’arroganza del Mostarda una lettera inviata a palazzo dei Priori. Contenuti e toni sono più che eloquenti. Scrive, tra l’altro il capitano: “Sappiano tutti i nostri cari contribuenti ai quali pervenne la lettera di messer Ianni (Tomacelli), avvisati de le vostre rate con le vostre rate e dei termini in quali dovete pagare. Quindi vi prego di dare ordine che si paghi infallibilmente entro i tempi, avvertendo che non ci saranno più le agevolazioni avute in passato”. Roba che oggi farebbe il paio con le letterine di Equitalia. La città è in ginocchio, non resta che ricorrere all’argenteria di casa. Così il Comune è costretto a far scattare una sorta di “patrimoniale sul lusso”. Chi più ha e comunque chi più mostra, più deve pagare. E a pagare sono quasi esclusivamente le donne….o i loro mariti. Le cosiddette “leggi suntuarie” vengono calibrate sullo status economico e sociale delle diverse classi. L’elenco delle prescrizioni è lungo e dettagliato. Riportiamo quelle più significative: viene proibito alle donne di mostrarsi con collane d’oro, d’argento, di gemme. La violazione della norma costa fino a 25 libbre di paperini (una moneta coniata dalla zecca viterbese) per la nobildonna e 10 per la popolana. Mantelli e pellicce possono essere abbelliti da fregi smaltati, ma soltanto se il peso di questi non vada oltre le due once di argento. Niente cinture d’oro e d’argento, che superino le dieci once. Non possono sfuggire all’occhio attento del fisco le acconciature che rendono più leggiadri i lineamenti dei volti: non devono sforare il valore di sei fiorini aurei. Poi le norme che riguardano i cosiddetti “panni”: i ricami in argento lavorato non devono costare più di 25 soldi per oncia; assolutamente vietati gli ornamenti, pena 25 lire. Chi ne fa uso, qualunque sia il ceto di provenienza, va considerata come nobile e quindi l’ammenda è molto più salata. La scure fiscale del Comune evidentemente non risparmia il vestiario. Viene permesso l’uso della “cioppa” che è un ampio mantello maschile o una lunga veste femminile purché non superi i sei pollici di larghezza. Le multe vengono applicate alle doti delle mogli e se queste risultino nullatenenti, siano sono i mariti a pagare di tasca propria. I controlli sono puntuali e svolti nei giorni festivi allorché dame e damigelle fanno sfoggio delle loro bellezze naturali impreziosendole con vesti e gioielli. All’occhiuto controllo delle nuove regole, impostate dalla “patrimoniale sul lusso”, provvedono un notaio comunale incaricato dal Podestà e un orefice designato dai Consoli dei Mercanti. Una sorta di ronda cittadina che segretamente rileva le varie infrazioni e l’identità dei responsabili. La notifica arriva di lì a qualche giorno. Chi non è in grado di pagare o magari ritarda soltanto i termini deve fare i conti con il Mostarda. Il quale in tempi brevissimi e perentori dovrà fare anch’egli i conti con il Padreterno: nel settembre del 1405 sarà assassinato a Roma per mano degli Orsini. Il primo di ottobre anche papa Bonifacio lascerà questa terra. E il fratello Giovannello Tomacelli? Sparirà semplicemente da Viterbo.

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