Roma, via Rasella, 23 marzo 1944, ore 15.52, Rosario Bentivegna dei Gruppi d’azione patriottica (Gap), camuffato da spazzino, avvicina la pipa alla miccia che porta al contenitore del carretto, pieno non di spazzatura ma di esplosivo. Sullo sfondo, il passo cadenzato e la canzone Hupf, mein Mädel (Salta, ragazza mia), man mano più vicini. È l’11ª Compagnia del III Battaglione del Polizeiregiment Bozen, composto da ufficiali tedeschi e da sottoposti altoatesini, avente funzioni di repressione antipartigiana su tutto il territorio occupato, con violenze e rastrellamenti, sotto il comando diretto delle Ss. La Compagnia è infatti pronta ad inquadrarsi proprio nelle Ss con mansioni di polizia. Una compagnia che marcia armata di tutto punto in pieno Centro, nel totale spregio degli accordi per Roma città aperta stipulati nell’agosto precedente su richiesta della Santa sede.
Tempo 50 secondi, il boato e gli ulteriori attacchi in armi dei gappisti: la pavimentazione sfondata, subbuglio, caos e polvere dappertutto, i cadaveri e i feriti a terra, i soldati occupanti che puntano le armi verso le finestre, convinti che dall’alto siano state calate delle bombe, e sparano, uccidendo quattro persone.
È stato così compiuto l’atto più clamoroso in una capitale europea occupata dai nazifascisti, alla fine del quale si sarebbero contati 33 militi del Polizeiregiment caduti, più un italiano: il dodicenne Piero Zuccheretti.
Accorrono i nazisti ed i fascisti, che stavano altresì festeggiando il 25° anniversario dei Fasci italiani di combattimento, ed iniziano il rastrellamento dei civili trovati nelle adiacenze della via dell’attacco. Hitler ne viene immediatamente informato e va su tutte le furie. Occupanti e collaborazionisti formulano in quei frangenti varie ipotesi sulla rappresaglia da adottare immediatamente, tra cui quella di far saltare in aria tutto il quartiere in cui si è consumata l’azione gappista. Scartate tutte le ipotesi reputate controproducenti, i nazifascisti optano per giustiziare dieci italiani per ogni milite ucciso. Bisognava ovviamente far fretta: non trovandosi un numero tale di condannati a morte detenuti, si procede per l’eliminazione di quanti, a vario titolo, antifascisti o ebrei, sono agli arresti tra il braccio dei politici di Regina coeli, l’Aussenkommando di via Tasso ed altri luoghi di prigionia, come la pensione Oltremare.
Sulle ore che vanno dall’azione partigiana alla rappresaglia si è, sin da subito, innestata la polemica strumentale. Una polemica che ha ormai una vastissima letteratura e che, fondamentalmente, fa perno su un elemento: se i responsabili dell’attacco si fossero consegnati, la rappresaglia sarebbe stata scongiurata e, a tal proposito, sarebbero stati affissi manifesti per tutta Roma e il bando sarebbe stato, addirittura, comunicato persino con gli altoparlanti. È un falso, però, come dice Ascanio Celestini nel suo celebre monologo sull’argomento, Radio clandestina, se ne è parlato talmente tanto che quei manifesti c’è chi giura di averli visti. È evidentemente un falso, perché l’operazione di rappresaglia avviene in tutta fretta ed in segreto: non si poteva certo comunicare alla città l’eliminazione di centinaia di uomini il giorno dopo, con il rischio che scoppiasse un’insurrezione.
Per l’esecuzione vengono scelte le cave Ardeatine, fuori città. Le operazioni di trasporto iniziano verso le 14.00 del 24, ancor prima cioè delle 24 ore dall’attacco. I condannati vengono fatti scendere dai camion, che restano con i motori accessi per coprire i rumori degli spari; gli esecutori bevono alcolici per sopportare il terribile compito che stanno espletando. I condannati, con i polsi legati dietro la schiena, sono colpiti alla nuca. Appena finita la carneficina, vengono effettuate delle esplosioni onde coprire l’ingresso con i detriti, al fine di occultare i cadaveri.
Alle 22.55, il Comunicato del Comando tedesco a Roma, ripreso dall’Agenzia Stefani:
«Nel pomeriggio del 23 marzo 1944, elementi criminali hanno eseguito un attentato con lancio di bomba contro una colonna tedesca di Polizia in transito per via Rasella. In seguito a questa imboscata, 32 uomini della Polizia tedesca sono stati uccisi e parecchi feriti. La vile imboscata fu eseguita da comunisti badogliani. Sono ancora in atto indagini per chiarire fino a che punto questo criminoso fatto è da attribuirsi ad incitamento anglo-americano.
Il Comando tedesco è deciso a stroncare l’attività di questi banditi scellerati. Nessuno dovrà sabotare impunemente la cooperazione italo – tedesca nuovamente affermata. Il Comando tedesco, perciò, ha ordinato che per ogni tedesco ammazzato dieci criminali comunisti – badogliani saranno fucilati. Quest’ordine è già stato eseguito».
La notizia dell’accaduto si diffonde. I familiari dei caduti sono ovviamente alla ricerca dei propri cari, di cui non hanno avuto più notizie. Militi della Polizia Africa italiana (Pai) vengono messi di guardia fuori dalle cave per evitare assembramenti commemorativi. Nel trigesimo della Strage, i Combattenti partigiani del Movimento comunista d’Italia – Bandiera rossa, il principale partito resistenziale del Lazio, inoltre estraneo al Cln, e che alle Ardeatine ha avuto il maggior numero di caduti, 1/6 del totale, si recano sul posto, disarmano i militi Pai, i quali dichiarano loro di vergognarsi di quanto fossero costretti a fare, e affiggono un cartello con scritto in rosso “I Partigiani di Bandiera rossa vi vendicheranno”.
A seguito della Liberazione di Roma inizia il lavoro di recupero delle salme, a cura dell’anatomopatologo Attilio Ascarelli, e di riconoscimento delle stesse, che avviene a volte per una protesi, altre per un brandello di vestiario, altre ancora per un oggetto. Le salme vengono numerate secondo l’ordine di recupero, partendo da quelle più vicine all’ingresso e via fino al fondo. Più il numero è basso più tardi è perciò avvenuta l’esecuzione.
Alla fine si contano 335 vittime, quindi 5 in più rispetto a quelle previste per la rappresaglia, ad oggi nella quasi totalità identificate. Un carnaio rappresentativo di tutte le tendenze politiche e di tutti i percorsi umani che hanno caratterizzato l’Antifascismo e la Resistenza.
La polemica strumentale sarebbe stata dura a morire. Nel corso dei decenni, i vari processi tenuti sulla questione, da quelli contro Albert Kesselring e Herbert Kappler ai vari per diffamazione a mezzo stampa, ai danni soprattutto di Bentivegna, hanno tutti inequivocabilmente stabilito la legittimità dell’azione partigiana di via Rasella, legittimo atto di guerra contro l’occupante, e condannato la rappresaglia delle Ardeatine, destituita di ogni fondamento giuridico – militare. Ciononostante, la polemica riemerge puntualmente, ogni qualvolta si rievochi il fatto.
Alle Ardeatine si contano dodici Martiri riconducibili, per varie ragioni, al Viterbese. Siamo nel 1995, 70° della Liberazione, quando Angelo La Bella, Rosa Mecarolo e Luigi Amadori dànno alle stampe una monografia intitolata Martiri viterbesi alle fosse Ardeatine. Si era nel pieno del caso Erich Priebke, il braccio destro di Kappler, riparato in Argentina e di cui l’Italia stava chiedendo l’estradizione. Il dibattito pubblico verteva sul dubbio se alle Ardeatine egli avesse solo fatto il suo dovere, cioè eseguito semplicemente gli ordini, con un’opinione pubblica ormai consistente a sostenere questa tesi, o meno. Estradato, Priebke sarebbe stato condannato all’ergastolo, per morire ai domiciliari l’11 ottobre 2013, a cento anni compiuti, con le polemiche che lo avevano accompagnato sin dal suo rientro in Italia.
La controversia fu comunque spunto anche per questa ricerca. Certo, i quasi trent’anni trascorsi dalla pubblicazione e gli studi che frattanto sono stati effettuati sulla materia, rendono il lavoro datato e necessario di integrazione. In parte lo si è fatto qui a seguire, con l’auspicio che, magari, si possa fare presto una seconda edizione della monografia.
Andiamo a vedere queste vite, secondo lo spirito della frase pronunciata proprio da Bentivegna: «Da anatomopatologo lo so benissimo che da morti siamo tutti uguali. Il problema è quello che abbiamo fatto da vivi».
Martiri del Viterbese alle fosse Ardeatine
Tito Bernardini. Nato ad Orte, il 24 aprile 1898. Ferroviere come il padre, nel 1923 era stato licenziato per motivi politici, facendo poi i più svariati mestieri . Si trasferisce a Roma nel 1940, in via Gioberti. L’8 settembre lo coglie magazziniere ma, quando gli occupanti prendono possesso della sua azienda, per non collaborarvi, si licenzia. Entra nel Movimento comunista d’Italia – Bandiera rossa, con cui compie diverse azioni a danno degli occupanti e dei collaborazionisti, tra cui gli attacchi all’Ambasciata del Terzo reich. Arrestato su delazione il 7 marzo 1944, nel laboratorio di armi del Movimento sito nei pressi di piazza del Popolo, è rinchiuso a via Tasso, dove viene orribilmente torturato per estorcergli informazioni, come testimonia anche Angelo Ioppi nel volume Non ho parlato, e trasferito a Regina coeli. È inserito nell’elenco dei fucilati compilato da Kappler, con l’accusa di propaganda comunista. Avrebbe compiuto 46 anni un mese dopo. Riposa al Sacello n.123.
Aldo Francesco Chiricozzi. Nato a Civitavecchia, dove la famiglia si era trasferita da Vignanello per il commercio vinicolo, il 12 settembre 1925. Postino, condivide il suo destino tragico alle Ardeatine con il cugino Angelo Fochetti. Ha 19 anni. Riposa nel Sacello n. 48.
Giorgio Conti. Nato a Roma, il 17 maggio 1902, ingegnere, in contatto con la Resistenza nel Viterbese, 41 anni. Riposa nel Sacello n. 46.
Alberto Cozzi. Nato a Roma il 23 marzo 1925 era originario di Castel Cellesi. Apprendista meccanico, all’8 Settembre non aveva obblighi di leva ma si univa all’organizzazione Stella rossa, finendo presto nelle attenzioni dei nazifascisti. I familiari gli consigliarono di riparare a Castel Cellesi, dagli zii, ove non poneva fine all’attività cospirativa, partecipando all’attività partigiana della banda Bartolomeo Colleoni, operativa nell’area Teverina. Con questa stava preparando un attacco dinamitardo a un deposito tedesco nel bosco de La Carbonara, sennonché interveniva un infiltrato. Questi, Biagio Roddi, si recava a casa degli zii di Cozzi consegnando, e chiedendo loro di occultare, un ordigno: in realtà un pacco di terriccio e cavi. Poco dopo le Ss giungevano a casa loro alla ricerca dell’esplosivo, alla presenza dell’infiltrato. L’esplosivo non veniva trovato ma Alberto e lo zio Francesco venivano tradotti prima al Comando di Bagnoregio, interrogati e percossi, e poi a Roma, in via Tasso. Qui Alberto assumeva su di sé tutte le responsabilità scagionando lo zio che, seppur malconcio, poteva tornare a casa. Cozzi, condannato a 7 anni, è trasferito a Regina coeli. Il Giorno prima della Strage aveva compiuto 19 anni. Riposa nel sacello n. 266. Tra i più giovani decorati Medaglia d’Oro al valor militare alla memoria in Italia:
«Diciottenne, animato da viva fede patriottica, subito dopo l’Armistizio, con decisione ed ardimenti esemplari, prodigava ogni sua attività nella lotta di liberazione, distinguendosi in pericolose circostanze per costante dedizione. In mani tedesche, manteneva esemplare contegno, nulla rivelando. Al processo rivendicava su di sé ogni responsabilità riuscendo a far assolvere un compagno. Alle fosse Ardeatine immolava la giovane vita agli ideali di patria e libertà.
Roma, settembre 1943 – 24 marzo 1944».
Renato Fabri. Nato a Vetralla, dove il padre era veterinario condotto, il 25 dicembre 1888. Prende parte alla Prima guerra mondiale e, al ritorno, trova un impiego al Ministero delle poste a Roma. Nel 1920 si porta in Francia come commerciante di pietre preziose. Qui, aderisce al movimento Giustizia e libertà. Nel 1939 torna in Italia e, dopo l’8 Settembre, prende parte alla Resistenza con incarichi di reperimento, trasporto ed occultamento di armi. Il 2 marzo 1944, a seguito d’una spiata è arrestato e tradotto a Regina coeli. È tra i 50 segnalati dal Questore Pietro Caruso per la fucilazione alle Ardeatine. Ha 55 anni. Riposa al Sacello n. 172.
Angelo Fochetti. Nato a Vignanello, il 2 dicembre 1915. Orfano della Grande Guerra, Fochetti riusciva a diplomarsi ragioniere con ottimi voti e ad ottenere un impiego presso la Sede centrale del Banco di Santo Spirito. Pendolare, partiva ogni mattina da Vignanello per recarsi al lavoro, con la ferrovia Roma Nord, nella Capitale.
Durante la Resistenza risulta operante nel gruppo Volontari della libertà, tra Roma e l’Area cimina del Viterbese, facendo soprattutto da collegamento per la diffusione della propaganda clandestina, in collaborazione con il Movimento comunista d’Italia – Bandiera rossa.
Il tragico destino lo unisce a suo cugino Aldo Francesco Chiricozzi. Secondo alcune testimonianze, i due sono tratti in arresto il 21 febbraio del 1944 all’uscita dall’albergo Littorio, secondo altre, sono stati rastrellati, subito dopo l’azione gappista, nei paraggi di via Rasella, dove effettivamente si stava tenendo una riunione clandestina di Bandiera rossa. Ha 28 anni. Riposa al Sacello n. 85.
Angelo Galafati. Nato a Civitella d’Agliano il 31 agosto 1887. Decorato con la Medaglia d’argento al valor militare per la Grande Guerra: «Semi accecato e gravemente ustionato, dopo aver messo in funzione le apparecchiature di neutralizzazione dei gas, per cinque ore bombardava il nemico e ne rompeva l’accerchiamento quando, per l’aggravarsi delle ustioni, venne ricoverato in medicheria. Monte Asolone, 15 giugno 1918».
Pontarolo di professione, antifascista, si trasferisce a Roma. Qui, dopo il 25 luglio 1943, aderisce al Movimento comunista d’Italia – Bandiera rossa. Su denuncia di una spia, è arrestato nella propria abitazione, in via Fortebraccio, 15, quartiere Pigneto, agli inizi di marzo 1944. Con lui sono arrestati dei prigionieri che aveva nascosto: quattro russi, un belga ed un francese. Detenuto a Regina coeli, cella 256. Da qui riesce a fare uscire dei biglietti destinati ai familiari, conservati presso il Fondo archivistico Angelo La Bella, Archivio di Stato di Viterbo. In uno di essi scrive:
«Roma 12 – 3 – 44
Carissima Giacinta
Ti faccio sapere che mi trovo a Regina Celi e non devi pensare a male perché la cosa non è grave, perché non mi ànno trovato arma. Dunque, non devi pensare a male, è stata proprio una fortuna che non ci avevano [trovato] un’arma [altrimenti sarebbe stato] molto peggio.
Cara moglie se vuoi venire a trovarmi qui l’entrata è giovedì e lunedì e mi porti le sigarette e qualche cosa per mangiare e la robba per […]. Ricevi tanti saluti e baci anche a tutti i figli. Mi raccomando a Emore e Peppe che abbino giudizio che sennò quando parto io guai a loro. [A] questo che porta [il] biglietto devi darli lire 500 e devi fare la risposta. Baci a tutti, tuo aff.mo Galafati Angelo.
Quando mandi la risposta mandami subito le sigarette che stanno dentro al cassetto del comò e dagli subito la risposta. Ciao [a] presto baci Angelo Galafati».
Ha 46 anni. Riposa al sacello n. 332.
Manlio Gelsomini. Nato a Roma il 7 novembre 1907, nel 1921, quattordicenne, aderisce al fascismo. Compie gli studi liceali ad Ancona, quando si manifesta in lui l’interesse per diverse discipline sportive, in particolare per l’atletica, da velocista. In questa veste, nel 1927, è iscritto d’ufficio alla nascente As Roma, fusione tra più gruppi sportivi della Capitale. La carriera velocistica cede però il passo agli studi in medicina per cui Manlio si laurea a Siena nel 1931. Ammesso alla Scuola di sanità militare di Firenze, si congeda con il grado di sottotenente. Torna a Roma e apre un proprio studio medico, in via Varese, presso la stazione Termini. Durante la Seconda guerra mondiale, molto probabilmente, Gelsomini inizia a rivedere le posizioni politiche assunte in passato. Tanto che, il 9 settembre 1943, è a porta S. Paolo a difendere la città dai tedeschi. Da quel luogo inizia la sua attività cospirativa che lo vede come esponente di spicco della Resistenza nel Lazio. Per essa avrebbe messo a disposizione tutte le sue conoscenze e le sue ricchezze, cioè i proventi dal brevetto d’un suo farmaco per aumentare il ferro nel sangue. Dagli scritti giunti a noi, il pensiero di Manlio sembra vagheggiare una sorta di comunismo cristiano senza esplicitare una precisa collocazione politica. È, comunque, lui a guidare il Raggruppamento monte Soratte, vale a dire il coordinamento della bande partigiane del Cln operanti nell’Alto Lazio. Poi l’arresto, il 13 gennaio 1944, in un bar sulla via Flaminia; un tradimento in circostanze misteriose com’è stato per altri protagonisti della cospirazione partigiana finiti nelle mani degli aguzzini nazisti a Roma. Da qui la detenzione in via Tasso, le torture e la morte. Ha 36 anni. Inizialmente posta nel Sacello n. 34, la salma riposa al cimitero del Verano, accanto a quella dell’amata madre Sparta.
Motivazione della Medaglia d’oro al valor militare:
«Manlio Gelsomini. Fu tra i primi ad organizzare un movimento di resistenza armata nella zona dell’Alto Lazio. Instancabile nella cospirazione e nella lotta partigiana. Con fermezza d’animo, con l’ascendente personale ed il generoso sprezzo della vita, durante i giorni del terrore nazifascista fu di luminoso esempio ai propri dipendenti, dando fiducia ai timorosi ed accrescendo audacia ai forti. Denunciato da una spia, fu arrestato e sottoposto per 76 giorni ad inumane indicibili torture, serbando il più assoluto silenzio circa l’organizzazione di cui faceva parte. Barbaramente trucidato insieme agli altri martiri della fosse Ardeatine, donava, sublime olocausto, la sua vita fiorente per la salvezza dei compagni di fede e per il riscatto della patria oppressa.
Fosse Ardeatine, 24 marzo 1944».
Unico Guidoni. Nato a Viterbo il 22 ottobre 1923; i genitori gli dànno un nome caro alla tradizione libertaria. Durante la Guerra è a Roma come studente e, dopo il 25 luglio 1943, è attivo nella cospirazione. Aderisce al Movimento comunista d’Italia – Bandiera rossa e, ancor prima dell’8 Settembre, è tra i fondatori del Centro politico clandestino di Grottarossa, nei fatti Quartier generale di Bandiera rossa: un insieme di grotte sotterranee, importante sito della Resistenza romana, luogo di organizzazione della lotta, socialità e formazione. In quest’ultima lo studente Guidoni spiccava, occupandosi del Centro di cultura marxista del Movimento. I compagni lo avrebbero ricordato “Bello e fecondo parlatore. Se si entusiasmava, in una disputa, aveva negli occhi, nel gesto, nella voce, un fascino irresistibile”. Filiberto Sbardella ne avrebbe conservato il quaderno degli appunti per le lezioni, tenute prevalentemente dinanzi a muratori e sottoproletari, con abbondanza di citazioni di Nietzsche.
Grottarossa lavorava a pieni ritmi per la Lotta partigiana: da qui si davano indicazioni per le azioni di sabotaggio e di conflitto a fuoco che mettevano spesso in scacco i nazifascisti, e in cui Guidoni era parte attiva. Da qui si stampavano i volantini che piovevano sulle strade delle borgate e sulle platee dei cinematografi. Ma il fantasma della delazione avrebbe finito per incombere anche su questa catacomba cospirativa.
Il 25 gennaio 1944, nella latteria di via Sant’Andrea delle Fratte, presso piazza Colonna, altro luogo d’incontro per Bandiera rossa, Unico è arrestato assieme ad Aladino Govoni, Antonio Pisino, Ezio Lombardi e il tenore Nicola Stame, compagni con cui avrebbe condiviso il tragico epilogo. Ha 21 anni
Dopo la Liberazione, Bandiera rossa gli avrebbe dedicato la propria Scuola di formazione.
Riposa al Sacello n. 113.
Epimenio Liberi. Nato il 6 luglio a 1920 Popoli, Pescara. Antifascista, aderisce al Partito d’azione. Dopo l’8 Settembre si adopera nella Lotta partigiana, militando nel Raggruppamento monte Soratte, agli ordini di Gelsomini, attivandosi nel territorio di Civita Castellana. È tratto in arresto il 20 dicembre 1943 e tradotto dapprima in via Tasso, dov’è sottoposto a torture, e poi a Regina coeli. Qui ha per compagno di cella don Giuseppe Morosini, poi fucilato a forte Bravetta, che compone una ninna nanna per il bambino che Epimenio stave aspettando e che non avrebbe mai conosciuto. È nella lista dei 154 destinati alla fucilazione stilata da Kappler. Ha 23 anni. Riposa al Sacello n. 297.
Enrico Mancini. Nato a Ronciglione, il 12 ottobre 1896, si trasferisce da bambino a Roma, nel quartiere Testaccio. Prende parte alla Prima guerra mondiale congedandosi con il grado di caporale. Apprezzato ebanista, è preso di mira per le sue posizioni antifasciste, sino a vedersi la bottega incendiata. Apre così una trattoria in via della Scrofa, riferimento per gli antifascisti, ma è infine costretto a trasferirsi alla Garbatella. Qui si adopera per alleviare le sofferenze della popolazione sfollata che abita i casermoni. Lui con aiuti alimentari, la moglie insegnando ai bambini quando le scuole erano chiuse. Nel 1942 aderisce al Partito d’azione. L’8 Settembre è quindi nella Resistenza. Qui sfrutta il suo incarico nell’Annona comunale per portare aiuti e fare opera di collegamento per informazioni ed armi. Referente del Partito d’azione per i quartieri Testaccio, Ostiense e Garbatella. Arrestato, è tradotto alla pensione Oltremare, sottoposto a torture e, infine, internato a Regina coeli. Era nell’elenco dei 50 da fucilare stilato da Caruso. Ha 47 anni. I familiari avrebbero riconosciuto la salma grazie alle iniziali ricamate sulla camicia. Riposa al Sacello n. 160.
Armando Ottaviano. Nato a Fresagrandinara, Chieti, il 20 novembre 1919, a 12 anni, si trasferiva con la famiglia a Roma. Compiuti gli studi liceali, si laureava in Lettere e filosofia con una tesi sui Moti risorgimentali del 1831.
Dopo la Caduta di Mussolini, faceva ingresso nel Movimento comunista d’Italia – Bandiera rossa, divenendone, con la Resistenza, Caposettore del quartiere Appio, in collegamento con le altre zone di Roma ed il Viterbese. Entrava a tal proposito in contatto con la Banda partigiana Giacomo Matteotti di Tuscania e prendeva parte a diverse azioni, facendo anche da tramite con l’attività partigiana nella Capitale, senza certo trascurare la formazione politica dei più giovani.
La sua azione cospirativa aveva termine il 22 marzo del 1944, nel cuore della notte, quando, su segnalazione d’una spia, le Ss italiane irrompevano nella sua abitazione, fuori porta S. Giovanni, e lo prelevavano per condurlo in via Tasso, dove veniva torturato al fine di estorcergli informazioni sul padre, inutilmente, e poi a Regina coeli. Il 24 marzo è nella lista di cinquanta persone da fucilare redatta da Caruso. Ha 24 anni. La sua Tesi di laurea è conservata al Museo storico della Liberazione di Roma, in via Tasso. Lo ricordano così i compagni di Bandiera rossa: «Compagno ideale di Ciro Menotti; egli volle mettere in pratica finalmente, consequente a sé stesso, nella piena lucidità dello spirito, le idee che aveva sviluppato di continuo; il suo spirito si fece carne e carne da martirio».
Riposa al Sacello 165.
Infine una errata corrige rispetto a Martiri viterbesi alle fosse Ardeatine, in cui viene elencato anche il nominativo del Martire Angelo Martella, un tipografo che si trovava a passare per via Rasella al momento dell’azione gappista. Si scrive infatti: “di lui si conoscono solo il nome ed il cognome, la data di nascita, il 10 ottobre 1908, ed il luogo dove è nato: Capranica”, avanzando poi delle ipotesi. Con ogni probabilità è stato proprio il luogo di nascita a trarre in inganno gli autori, perché si tratta di Capranica Palestrina, oggi Prenestina, in provincia di Roma, e non dell’omonimo centro del Viterbese.
Tenendo conto della vasta bibliografia esistente su via Rasella e le Ardeatine, si mettono a seguire le fonti bibliografiche da cui sono stati tratti i dati e le citazioni virgolettate per il contributo:
Roberto Gremmo, I Partigiani di Bandiera rossa, Il Movimento comunista d’Italia nella Resistenza romana, Biella, Elf, 1996
Angelo La Bella-Rosa Mecarolo, Luigi Amadori, Martiri viterbesi alle Fosse Ardeatine, Per non dimenticare, Viterbo, Comitato provinciale Anpi, 1995
Movimento comunista d’Italia, I Nostri Martiri, Roma, 1945
Valerio Piccioni, Manlio Gelsomini, Campione partigiano, Torino, Abele, 2014.