“Cymbalum” di Giulia Benedetti: emozioni dentro una frazione infinitesima di una festa

di Giulia Benedetti:#

“Cymbalum”

“Le cose più sensazionali accadono quando meno te l’aspetti” questo nonna me l’aveva ripetuto fino allo sfinimento. Puoi pianificare qualunque dettaglio della tua vita, e proprio quando credi di avere le redini in mano e di riuscire a gestire qualsiasi situazione in maniera calma e razionale, ecco che capita qualcosa di eccezionale che abbatte il tuo autocontrollo come fosse un birillo sulla pista da bowling.
Ecco, io credevo di averlo capito bene il discorso di mia nonna.
Quanto mi sbagliavo.

Tutto accadde in una serata come tante, ma durante una festa che cade una volta a l’anno e che per una notte avvolge nel suo calore la mia città, la festa della patrona. Per festeggiarla ogni anno, in questa giornata, una torre altissima viene portata in trionfo per le vie maggiori della città. Le piazze sono gremite di persone, dai più giovani ai più decrepiti, che prendono posto nelle piazze, attendendo tutto il giorno di contemplare con devozione lo splendore della torre. Ad essa rivolgono preghiere, canti e applausi, migliaia di applausi. L’atmosfera, insomma, si carica di bellezza, diventando uno spettacolo unico al mondo.
Avevo assistito al rituale ogni anno, fin da quando ne avevo memoria, e questa volta ero riuscita a rimediare un invito nel luogo più esclusivo a cui poter assistere a questo spettacolo, ovvero il palazzo in cui, da più di cinquecento anni, risiedevano le cariche comunali. Era un onore, un privilegio a cui accedevano i pochi appartenenti alla casta dell’alta borghesia cittadina: politici, ingegneri, avvocati, ecc…
Quando arrivai alla festa, le sfumature di arancio e rosa del tramonto si riversavano sulle superfici e sulle persone, bagnate dalla luce crepuscolare. Il cortile del palazzo traboccava di uomini e donne vestiti con estrema, in alcuni casi eccessiva, eleganza. Mentre la plebe si accalcava, si spintonava al di fuori delle imponenti porte solo per poter godere della vista della “macchina”, così veniva chiamata la torre, all’interno dell’antico edificio le persone sembravano fluttuare in una immensa bolla di sapone. Dall’esterno venivano gli echi dei tamburi e delle bande musicali, note che contrastavano con quelle più raffinate dei pezzi jazz usati come musica di sottofondo all’interno dell’edificio.
L’abissale differenza di ambienti si denotava anche dal cibo: le persone che si erano accampate fuori consumavano dei pasti modesti e piuttosto spartani, come panini, pannocchie o zucchero filato, mentre nell’immenso patio era stato allestito un ricco buffet, traboccante di pasta, sfiziosità e vino, tantissimo vino.
In questo scenario suggestivo mi ero fermata a conversare con un assessore amico della mia famiglia, aggiornandolo sugli ultimi gossip. All’improvviso un vivace ragazzino, correndo, urtò la mia gamba. Il mio sguardo lo seguiva mentre correva verso la tavola imbandita, guardando divertita il numero di persone che investiva nella sua corsa.
Ad un certo punto la piccola peste si fermò a pochi metri dalla tavola, e alzò lo sguardo sorridendo.
Fu al quel punto che lo vidi.
A vederlo lo avresti scambiato per un attore. I capelli si erano leggermente allungati da quando ci eravamo visti l’ultima volta e, guardandoli da vicino, si potevano notare i primi fili argentati, che non facevano altro che donargli un’aria matura. Il suo completo azzurro metteva in risalto la pelle leggermente dorata, il massimo che poteva ottenere dai suoi pisolini sotto il sole estivo. Nonostante la bassa statura, aveva un qualcosa nel suo modo di muoversi che ti catturava fin da subito. Probabilmente non era tanto l’aspetto fisico, quanto più la sua sicurezza, talmente accentuata da sfociare in un accenno di spavalderia, a renderlo così dannatamente affascinante.
Se qualcuno mi chiedesse che ricordi precedenti avessi di lui, sinceramente non saprei cosa rispondere. I ricordi del liceo sembravano una strada avvolta dalla nebbia alle prime luci dell’alba. C’era un nome, echeggiato e sospirato da tutte le ragazze della mia classe, se non della scuola, e c’era lui che, al contrario di molti altri là dentro, mi rivolgeva un saluto e un semplice sorriso ogniqualvolta m’incrociava per i corridoi. Semplice, senza secondi fini. E così era stato per le altre rare volte in cui ci eravamo fermati per salutarci o parlare.
Forse avevo sempre provato attrazione per lui, forse no. Forse l’avevo repressa appena percepita, forzata dalla mia insicurezza di adolescente. O forse lo vedevo quella sera come se fosse la prima volta, benedetta da una qualche divinità dionisiaca.
«Zio Lapo!» aveva esclamato il bambino che lo aveva interrotto, mentre lui si stava gustando con nonchalance un piattino di amatriciana servito dal catering. Sorrise al bambino e con una mano gli scompigliò i ricci biondi.
Era insieme a un mio vecchio compagno di università, Nino, uno di quelli che hanno mille impegni e che ti ritrovavi ad ogni evento mondano.
Il raziocinio cominciò ad eclissarsi, probabilmente grazie all’alcool che cominciava a circolare nel sangue, così decisi che dovevo assolutamente fare in modo che mi notasse, strappargli due parole forse.
Serpeggiando tra gli invitati con il flûte in mano e rivolgendo sorrisi e cenni a destra e manca, riuscii ad avvicinarmi di qualche metro alla loro posizione, dopodiché rivolsi lentamente la testa verso di loro, con fare distratto, fingendo di averli appena visti. Se non fosse stato per il fatto che, per una volta in vita mia, mi sentivo bella e che avessi bevuto qualche bicchiere di prosecco di troppo, difficilmente avrei avuto il coraggio di salutare Nino.
«Carissima» Nino chiamava tutte così, soprattutto quelle che gli andavano a genio. Con lui c’era sempre stato un certo rispetto, accompagnato da una velata attrazione reciproca. Dopo un breve scambio di convenevoli cercò di presentarmi al suo migliore amico, il famoso Lapo La Mattina, che, finalmente, voltò lo sguardo verso di me.
«Ci conosciamo già» dissi con una lieve dose di timidezza.
«Tatiana!» un sorriso a trentadue denti irruppe sul suo volto, un sorriso semplice, spontaneo e anche un po’ sorpreso. Ero diversa dalla ragazzina in carne e timida a cui era abituato. Avevo affusolato il mio fisico, raffinato il trucco e, con la sicurezza derivata da questi piccoli grandi cambiamenti, mi ero affolta in un sensuale tubino nero che si apriva in uno spacco sulla coscia destra.
Se fossi stata più accorta, avrei notato quella punta di malizia che aveva acceso i suoi occhi.
«Come stai? Vedo che sei in splendida forma.» La mia testa, che già faticava a comporre una frase di senso compiuto, cominciò a vorticare, tanto ero estasiata da quella parola che aveva usato. Fu un miracolo se riuscii a rispondergli “grazie”.
Negli attimi che seguirono cominciammo a parlare delle nostre rispettive vite: il nostro lavoro, come stavano i nostri parenti, la vita di tutti i giorni. Dopo un po’ Nino si allontanò, intuendo forse le mie intenzioni, così cominciammo ad avventurarci in zone più intime, ricordando i bei tempi andati del liceo (belli per lui, non per me), parlando di gente che conoscevamo e che era magicamente sparita dalla circolazione, raccontando i nostri reciproci progetti per il futuro o le nostre disastrose relazioni (soprattutto le mie). Ad un certo punto mi fece una domanda che accese le mie speranze.
«Cosa fai dopo i festeggiamenti?»
«Non lo so, forse andrò a letto»
A questo punto, la voluttuosità nelle sue parole, che fino a poco prima era stata abilmente celata, cominciò ad emergere.
«Sei troppo bella per andare a letto da sola. Perché, invece, non vieni con me all’inaugurazione di un nuovo locale?»
Con un misto di imbarazzo e felicità, gli risposi senza stare a pensarci troppo «Volentieri. Ma non sapevo ci fosse un’inaugurazione questa sera, dove si trova?»
«Poco fuori le mura cittadine, è un posto molto esclusivo. Vedrai ti piacerà da morire. Adesso scusami, ho una cosetta da sbrigare. Ci vediamo a mezzanotte qui».
Con delicatezza avvicinò il viso al mio e mi baciò la guancia in maniera languida e con lentezza, come se mi stesse assaporando. Il mio naso si riempì dell’odore di dopobarba mischiato a un odore di bruciato, come di sigaretta, ma più intenso. Mi guardò intensamente, provocandomi un brivido lungo la schiena, fece rapidamente l’occhiolino e se ne andò.
Trascorsi il resto della sera attendendo la mezzanotte, come una scolaretta che aspetta impaziente il suono della campanella. Come ogni anno, la torre era splendida, al punto da lasciare tutti senza fiato. Eppure c’era qualcosa che mi provocava un senso di ansia, a tratti di claustrofobia. La candida statua della santa fissata in cima alla macchina sembrava osservarmi come a volermi rimproverare, lasciandomi addosso un senso di smarrimento, come una bambina accusata di qualcosa che non aveva commesso.
Cercai di scrollarmi di dosso l’angoscia rinfrescandomi e ripassando il lucidalabbra.
Una volta finiti i festeggiamenti pubblici, raggiunsi il mio Cicerone e insieme ci avviammo verso il locale. In verità più che un locale, era un’imponente villa di antica costruzione, probabilmente ottocentesca, situata in una radura poco lontano dalla cinta muraria della città. Difficilmente si trovavano delle costruzioni in quella zona, per le varie storie e leggende metropolitane che vi circolavano. Si diceva, in particolare, che in quella selva nei tempi antichi venissero condotte le giovani fanciulle per darle in sacrificio a un mostro che terrorizzava la città. Si mormorava che i loro spiriti ancora vagassero infuriati nelle notti di luna piena. Nonna me la raccontava spesso, era una delle mie storie preferite.
Dal vialetto scarsamente illuminato dalla luce lunare e dalle lanterne si riuscivano a sentire le note assordanti che provenivano dall’interno. Fuori la porta c’era un imponente buttafuori che ci aspettava a braccia incrociate, con un sguardo non proprio amichevole.
«Avete un invito?»
Sentendo quelle parole, Lapo fu colto da un’estrema irritazione, che si poteva scorgere sia dalla sua espressione, sia dal modo in cui rispose.
«Per caso non mi riconosci?»
Il buttafuori lo guardò attentamente, poi, di colpo sbiancò, cominciando a balbettare.
«Pa-parce mihi, Magister». L’uso del latino mi lasciò perplessa, tanto quanto il significato di quelle parole “Padrone, perdonami”. Stavo per chiedergli spiegazioni, ma lui fu più veloce.
«Come puoi vedere è un club estremamente esclusivo e originale» Disse col suo sorriso impeccabile. Dopodiché si rivolse al buttafuori.
«Con te parlerò più tardi, adesso lasciaci entrare»
L’energumeno si scansò di lato e noi finalmente entrammo.
«Metti così paura?» dissi scherzando.
«Solo quando non ottengo ciò che voglio».
Dall’anticamera in cui eravamo proveniva sempre più assordante una musica ritmata, selvaggia, ma coinvolgente, accompagnata da risate, urla e schiamazzi. Un cameriere ci accompagnò nella sala da cui provenivano quei suoni di primitiva gioia, spalancando le porte per noi.
Un tripudio di oro e nero si estendeva davanti ai miei occhi. Le pareti e il pavimento sembravano fatti di pura oscurità, mentre i mobili, i candelabri e perfino la console del dj, splendevano di luce dorata.
«Benvenuta al Cymbalum!» urlò Lapo in estasi.
Intorno a noi saltavano e ballavano sfrenatamente centinaia di persone, senza inibizioni, senza freni, in preda alla frenesia del momento e a una sensualità incontrollata.
Prima di gettarci nella mischia, ci dirigemmo verso il bar. Ad attenderci c’era una giovane donna con la pelle ambrata, gli occhi magnetici e il fisico di una modella.
«Cici, per me il solito»
«E la signorina?»
«Faccia lei, io non ho preferenze» al che mi sorrise mostrando i denti bianchissimi, dai tratti felini.
«Allora un bel Apple Martini: credimi tesoro, ti farò volare» Lapo scoppiò a ridere come se quella donna potesse davvero farmi crescere un paio d’ali.
«Mi raccomando la voglio viva, vegeta e spensierata»
«Tutto, per la ragazza della Stella del mattino» rispose sarcastica.
«Perché ti ha chiamato così? »
«Una vecchia storia, magari più tardi te la racconto se vuoi»
In poco tempo la barista tornò con i nostri drink, serviti in stravaganti bicchieri di cristallo a forma di teschio. Uno era di un rosso vivido, un Bloody Mary, mentre il mio era di un verde intenso. Bastarono pochi sorsi e la mia canzone preferita a scatenare tutta la mia euforia. Ballai come mai nella mia vita, muovendomi sinuosa come non avevo mai osato, accanto al ragazzo che avevo sempre desiderato. Tutto sembrava perfetto.
Improvvisamente, la musica s’interruppe, sostituita dal ritmo dei tamburi, mentre al centro della pista da ballo si formò uno spazio vuoto. Due ragazzi mi afferrarono le braccia, trascinandomi al centro di tutto mentre le percussioni si facevano più lente e solenni, ma pur sempre potenti.
Una donna con una tunica rossa, si avvicinò a me, mi pose in testa una corona di rose e mi unse la fronte con uno strano olio, con mio sommo stupore. La musica si fermò. In quel momento la folla intorno a me esplose in un urlo di giubilo, seguito da scroscianti applausi da stadio.
Senza darmi il tempo di dire qualcosa, Lapo mi fu accanto, cogliendomi di sorpresa, mi prese in braccio, come fossi una bambola, e si avviò verso la scalinata che portava al piano superiore. La folla si apriva e si inchinava al suo passaggio, urlando e applaudendo in maniera ancora più sfrenata.
«Dove mi porti?» chiesi biascicando un po’.
«In un altro mondo».
La testa aveva cominciato a girare, i colori sembravano più vividi, le mie emozioni più intense e le ombre sembravano seguirci correndo sui muri. Alcune sembravano deformarsi, trasformarsi, come se avessero quattro braccia, o due paia di ali. Perfino gli occhi di Lapo mi sembravano cambiati, passando dal nocciola a un marrone più caldo, tendente al rosso.
Lo sentì aprire la porta, ed entrare in una stanza buia. In quel luogo ritornò più intenso l’odore di sigaretta che avevo sentito qualche ora prima.
Con molta delicatezza mi posò sopra quello che sembrava un enorme letto a baldacchino.
«Perché mi hai portata qui? Io voglio ancora ballare!»
«L’erba voglio non cresce neanche nel giardino del re, e, poi ho pensato che preferissi stenderti un po’.» L’enfasi che pronunciò con le ultime quattro parole lanciarono un messaggio inconfondibile.
«Mi stendo solo ad una condizione»
«Quale?»
In quel momento la mia stessa audacia, mi stupì «Baciami». Anche se eravamo al buio, ed ero stordita, potei vedere la sua faccia fare una strana espressione, come se quel bacio significasse qualcosa di molto più profondo. Avvicinò il viso al mio, ma invece di assecondare la mia richiesta, mi chiese:
«Sei sicura di volerlo?» «Sì»
«Davvero? «Sì»
«Sicura?» «Perché me lo chiedi? Comunque, sì»
In men che non si dica si avventò su di me come una pantera. Le sue labbra premevano decise contro le mie. No, non premevano. Mordevano, spingevano, stringevano in un movimento perpetuo e frenetico.
Io al confronto ero decisamente più languida, decisa ad assaporare ogni momento con calma. Le sue mani, nel frattempo, stringevano avide i miei fianchi. Erano gelide così come le labbra che m’invadevano. Tutta la sua raffinatezza e la sua compostezza si dissolsero, lasciando spazio a un Lapo che apprezzavo, ma che contemporaneamente m’impauriva.
Di lì a poco, i nostri vestiti cominciarono a coprire il pavimento. Con le mani accarezzai la sua schiena, anch’essa fredda, ed incontrai un qualcosa che mi fece rabbrividire. Come due solchi che partivano dalle scapole e scendevano verso il basso. Due enormi cicatrici.
«Ma cos’hai?»
«Non toccarle!» sbottò graffiandomi il collo. In quel momento le candele, il caminetto e perfino qualche tenda presero fuoco in simultanea, illuminando quel momento idilliaco. Il mio sguardo allora cadde per caso sull’immagine riflessa nello specchio accanto al letto. Abbracciato al mio corpo, sbiancato dalla paura, non c’era il ragazzo intelligente e sensuale che avevo rincontrato durante la serata, o almeno non come lo avevo conosciuto. Le gambe erano state sostituite da due zampe caprine ricoperte da folta pelliccia nera. Le mani terminavano con lunghi artigli da rapace. Gli occhi sembravano fatti di fuoco, ma la cosa che più mi terrorizzava erano le due lunghe corna appuntite che gli spuntavano dalla testa.
Cacciai un urlo con tutto il fiato che avevo in gola e, con degli scatti dettati dall’istinto, mi divincolai dalla sua presa e corsi verso l’uscita.
Il cuore batteva all’impazzata, le lacrime uscivano rapide dagli occhi, mentre la puzza di bruciato invadeva sempre più le mie narici. Arrivai alla scalinata, ma a metà mi fermai. Avevo davanti la stessa sala di prima, ma il suo contenuto, gli invitati, era mutato così come il mio amante. Le donne erano per la maggior parte nude e molte di loro danzavano in cerchio intorno a dei musici, al centro della sala. Quelle che non erano impegnate nella danza bevevano, o erano avvinghiate a un compagno. Gli uomini avevano sembianze animali o demoniache, alcuni con ali da pipistrello. Ma la cosa che più mi terrorizzò non furono questi dettagli, ma il sangue che, chi più chi meno, bagnava le bocche e i corpi delle ballerine e degli ospiti. Ma, soprattutto, la mano umana che giaceva ai piedi della scalinata, l’avanzo di un laido banchetto infernale. Fu a quel punto che riconobbi la voce argentina della barista, Cici, che, vedendomi in quello stato, scoppiò a ridere a crepapelle:
«Non mi dirai che avete già finito?!»
Dopo il rintocco dell’orologio che batteva le 3 del mattino, non sentii più niente, perché svenni.
Ebbi la fortuna di risvegliarmi al sicuro, nel mio letto, illuminata dalla tiepida luce solare. Il cuscino era bagnato dal sudore e dalle lacrime. Un sogno. Un sogno dannatamente reale. Eppure sentivo ancora quell’odore penetrante di bruciato, come di zolfo, che sembrava essersi incollato alla mia pelle. Felice di aver soltanto dormito, andai in bagno per lavarmi la faccia appiccicosa. Mi ero calmata, quando scorsi qualcosa sul mio collo, un grande inconfondibile segno rossastro sul mio collo che risvegliò la paura provata quella notte.
Non so ancora cosa mi spinse a salire in macchina, armata di rosario, crocefisso e pistola. L’idea di ritornare sui miei passi non mi piaceva, ma dovevo avere la conferma che ciò avevo visto quella notte non era frutto della mia pazzia. Ripercorsi la strada fatta la notte precedente. Nel punto in cui avrei dovuto trovare la villa col suo vialetto e la sua aria sinistra, non c’era niente. Il Cymbalum era svanito nel nulla. Ma la parola evocò, oltre al terrore, un ricordo nella mia mente. Tra le tante storie che mi raccontava nonna, ce n’era una che mi era rimasta particolarmente impressa. Era una leggenda popolare, risalente ai tempi del medioevo, su un luogo magico, in cui si radunavano le streghe dell’epoca. Di notte appariva, accogliendo i sabba e i rituali delle fattucchiere, e alle prime luci dell’alba scompariva, così come era apparsa: la casa del cembalo. Trovarla era un’impresa ardua e spesso le streghe venivano guidate o invitate da un uomo, spesso giovane, bello e sempre vestito di azzurro. Lucifero o, secondo la traduzione, la “Stella del mattino”.
“La ragazza della Stella del mattino” così mi aveva chiamata la barista. C’era un altro dettaglio che mi inquietava non poco. In queste cerimonie, coloro che entravano a servizio del diavolo prestavano un giuramento di fedeltà, molto semplice: Lucifero poneva tre domande, a suo piacimento, e l’iniziato, per tre volte doveva dargli una risposta affermativa. Doveva semplicemente dire “Sì”.
Nonostante fossi all’aria aperta, respiravo a fatica. Inebetita, fissavo lo spazio vuoto di fronte a me. La casa era svanita, così come era svanito Lapo. L’unica cosa che testimoniava la sua esistenza era il suo ricordo, marchiato a fuoco nella mia memoria, e un piccolo segno lì dove mi aveva graffiato. Solo che, invece del segno di un graffio profondo, c’era una strana, piccola cicatrice, che ricordava una stella alpina senza petali, con solo tre linee ricurve.
Come tre piccoli sei attaccati fra loro.

*L’autrice con questo racconto si è classificata al secondo posto del Premio Letterario Nazionale Città di Viterbo Tuscia Libris,incluso nella Antologia del Premio TUSCIA LIBRIS edita da Della Rocca Editore acquistabile sul sul sito www.tusciaapezzetti.it/prodotto/tuscia-libris-antologia/

 

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