Diletti figliuoli, aspettiamo ancora qualche giorno, poi decideremo. Questa in estrema sintesi la risposta di Innocenzo VIII°, il genovese Giovanni Battista Cybo, ai viterbesi che lo hanno appena invitato a trasferirsi temporaneamente nella nostra città e ad abbandonare Roma, per sfuggire all’ennesima epidemia. E’ da poco iniziata l’estate del 1485 e la periodica per quanto puntuale infezione ha cominciato a sciorinare la propria, letale falce: numero dei decessi in crescita esponenziale lungo le rive del Tevere e dintorni, segnali allarmanti anche a Viterbo, tanto da spingere i Priori ad adottare misure sempre più restrittive: chiusura delle porte cittadine, distanziamento fisico, misure igieniche più rigide. Uno dei numerosi provvedimenti stabilisce che i proprietari delle abitazioni e delle botteghe osservino estrema cura nella pulizia delle strade e debbano lastricare, a loro spese, con selci e mattoni i tratti antistanti i loro immobili. Le notizie che arrivano da Roma sono sempre più preoccupanti e cresce evidentemente anche l’ansia per la salute del Papa. Non c’è tempo da perdere: i Priori inviano una accorata lettera a Innocenzo VIII° per invitarlo a raggiungere Viterbo in quanto la città può mettere a disposizione un palazzo che fino a due secoli prima ha ospitato altri pontefici e dove, soprattutto, “l’aere serbavasi tuttora puro”. Insomma, dove il pestilenziale contagio è ancora sotto controllo anche se in continua espansione. La risposta del Papa ai “sudditi così devoti e amorevoli”, ai Priori e alla città tutta, è altrettanto rapida. In questo momento – spiega in un lettera datata 15 luglio – purtroppo sono costretto da improrogabili e importantissimi impegni (“negozi di gran rilievo”, li chiama) a non muovermi da Roma e prima di decidere per una eventuale partenza, vorrei attendere ancora qualche giorno, nella speranza che l’epidemia possa lentamente rientrare. In effetti, le poche testimonianze storiche non precisano se la peste fu debellata, se esaurì la propria carica mortifera o se tornò gradualmente a seminare lutti e sofferenze. E’ un interrogativo che vale anche per i tempi che stiamo attraversando. Fatto è che Viterbo, in quella maledetta estate del 1485, in pochissimi giorni diventa il rifugio di tante, tantissime famiglie di romani in fuga da Roma e dal morbo. Quasi una invasione che disorienta la collettività, fa saltare gli equilibri sociali e, naturalmente, fa dimenticare ai Priori di sollecitare il trasferimento del Pontefice che comunque agli artigli della morte nera riesce a sfuggire se è vero che morirà sette anni dopo nella sua amatissima Roma, appena sessantenne.
Viterbo e l’epidemia del 1485, quell’invitò a papa Innocenzo VIII° caduto nel dimenticatoio
di Luciano Costantini