La Domus Dei, o quel che ne rimane, era uno dei 25 ospedali che ha ospitato Viterbo durante tutto il Medioevo. Si affaccia di fronte alla basilica di Santa Maria di Gradi, lambisce la Cassia/Cimina e, nel periodo di maggior splendore, riusciva a mettere a disposizione di poveri e pellegrini due corsie di 32 metri per 16. Oggi è un rudere cadente e purtroppo dimenticato, che il tempo e l’incuria umana flagellano con continuità inesorabile. Comunque non siamo qui per denunciare le ferite del sito, ma per raccontare uno degli ultimi scorci della sua esistenza, condizionato pesantemente da una eredità contesa. Una tenzone tra clero e chiesa. Più prosaicamente tra frati in saio e fratelli in cappa, i quali mettono da parte croce e spada per accaparrarsi semplicemente dei beni terreni. La storia, lontana di sette secoli, presenta tante analogie con situazioni dei nostri tempi. Non potrebbe essere diversamente. Spesso cambiano soltanto gli interpreti, a testimoniare che truffa, raggiro, malafede in generale, rientrano nella eterna categoria della umana disonestà. Nella circostanza è il capitano del popolo, Visconte Gatti, a far scattare la guerra per l’eredità. Lo fa inconsapevolmente e dunque senza colpa. Visconte è un nobile viterbese, figlio del più famoso Raniero Gatti. All’inizio degli anni Ottanta del tredicesimo secolo decide di acquistare il palazzo della famiglia dei prefetti Di Vico che sorge dove più tardi sarà eretta la Domus Dei. Pietro De Vico che, a quel che si racconta, in vita non è stato esattamente un santo, quasi alla fine dei propri giorni implora i familiari perché gli facilitino il riposo eterno preparandogli una tomba all’interno della basilica di Gradi. I figli trasmettono l’ultimo desiderio del padre ai frati Domenicani e questi accettano subito e senza riserve. Carità cristiana? Forse. Certo deve aver pesato un corposo lascito, promesso dal prefetto, alla congregazione dell’Ordine che da sempre amministra chiesa e convento. Non trascorre qualche anno che ecco entrare in scena Visconte Gatti che coltiva da sempre un antico sogno, quello di realizzare un ospedale. Il “vecchio acciaccoso e senza prole”, così lo descrive lo storico Cesare Pinzi, evidentemente deve aver molti peccati sulla coscienza e per redimersi pensa, anch’egli come il prefetto de Vico, che la salvezza della vita eterna debba passare per Gradi. Così l’antica dimora dei di Vico viene acquistata dal Gatti e poi rasa al suolo per far posto all’ospedale Domus Dei al quale Visconte destina molte delle sue attenzioni e delle sue cospicue risorse. Gli fa dono persino della dote della moglie, Teodora Capocci, scomparsa nel 1298. L’anziano nobiluomo vorrebbe essere ancor più generoso perché sente avvicinarsi inesorabilmente l’addio al mondo terreno e sarebbe bene assicurarsi un biglietto di prima classe. Anzi primissima. Pensa quindi di regalare ai Domenicani e a Gradi tutti i propri beni, ma come reagirebbero i fratelli Raniero e Pepone che non intendono cedere ai frati il patrimonio familiare? Per grazia di Dio o per tempestività esclusivamente umana interviene nella questione, con eccezionale tempistica, un certo Fra Consilio degli Amfanelli. Chi è costui? Un Domenicano arcivescovo di Conza, parente dei Gatti, che in quei giorni è ospitato nel convento di Santa Maria di Gradi. Il 12 agosto del 1306 invita nella propria cella il vecchio Visconte e, alla presenza di altri quattro frati, due autorevoli cittadini e tre familiari, gli fa dettare un testamento con il quale lascia l’intera eredità ai suoi due fratelli. Baci e abbracci, strette di mano, sorrisi, brindisi, magari una allegra tavolata. Poi Raniero e Pepone lasciano la cella insieme ai testimoni laici. Trascorrono appena pochi minuti che il nostro astuto Fra Consilio, rimasto solo con i confratelli, fa sottoscrivere a Visconte – non si sa quanto in grado di intendere e di volere – un nuovo testamento con il quale lascia tutti i propri beni terreni all’ospedale e ai Domenicani che lo amministrano. Questi ultimi, alla morte del Gatti, sono più rapidi a incassare l’eredità che a celebrare i funerali. I fratelli Raniero e Pepone sono altrettanto solleciti a chiedere che l’atto sia invalidato. La contesa si accende e si protrae per sei anni. Una battaglia legale, si direbbe oggi, che consuma denari ed energie su entrambi i fronti. Pepone muore e Raniero, stanco e verosimilmente dissanguato, accetta di trasmettere gli atti della controversia a Niccolò del Prato, cardinale Domenicano e vescovo di Ostia e Velletri. La sentenza definitiva arriva in tempi relativamente brevi: l’eredità di Visconte è passata a pieno diritto alla Domus Dei e niente potranno rivendicare su di essa i suoi fratelli e i parenti tutti. Per il presente e per il futuro.
Foto:Viterbo, Domus Dei Anna Federici