Profughi dall’Ucraina: ce ne sono milioni in giro per l’Europa e oltre 100.000 giunti in Italia. Gente che fugge dalla guerra e dalla miseria, in cerca di conforto: spirituale, ma anche economico. In questo quadro si inserisce l’avventura, molto toccante, di una famiglia che abita a Celleno. Lui è Saverio Senni, docente all’Università della Tuscia. La moglie si chiama Silvana Crivellaro. A fine marzo decisero di ospitare una donna ucraina e le sue due figlie. Ma la storia non è finita col classico “…e vissero tutti felici e contenti”. Questo il loro racconto:
di Saverio Senni e Silvana Crivellaro
Tutto è cominciato il 30 marzo scorso quando il COSPE di Firenze ci chiamò per chiederci se potevamo ospitare una famiglia ucraina in fuga dal Donbass. Era qualcosa che ritenevamo giusto fare, risiedendo in una casa dove i figli ormai grandi se ne erano andati da tempo e lo spazio non mancava.
Così, al ritorno da un viaggio fatto dal COSPE in Ucraina, ci viene affidata la famiglia che aveva deciso di venire in Italia. Abbiamo poi scoperto che anche altre famiglie di nostra conoscenza avevano dato analoga disponibilità, ma senza successo. “Come avete fatto?” ci chiedevano, guardandoci con una certa invidia e complimentandosi con noi per il gesto.
Nel giro di poche ore abbiamo potuto verificare come la “macchina dell’accoglienza” fosse perfettamente oleata: la figlia più piccola, di 9 anni, nel giro di due giorni era già inserita nella scuola elementare di Celleno. Ricordiamo bene il suo sorriso quando ha saputo che ci sarebbe andata con lo Scuolabus, esperienza che non aveva mai fatto nel suo paese.
L’accoglienza nella classe è stata eccezionale: tutti i suoi compagni hanno subito fraternizzato superando barriere linguistiche che in realtà sono tali soprattutto per gli adulti e non per i bambini. Alcuni sono venuti a cercarci a casa per portarle dei regali di benvenuto, uova di Pasqua per lo più perché era quello il periodo.
La sorella più grande invece, riusciva a continuare a seguire a distanza le lezioni del suo corso universitario in Ucraina. Di fatto grazie ad Internet non si stava perdendo nulla del suo percorso di studi.
Ad un certo punto però abbiamo percepito una certa impazienza da parte della madre per il trascorrere del tempo senza che si facessero significativi passi avanti nella loro “regolarizzazione”: entrando in contatto con altri ucraini venuti in Italia si era fatta l’idea che in pochi giorni avrebbero avuto il riconoscimento come profughe, un contributo economico e probabilmente anche un alloggio e chissà, forse anche un lavoro.
Noi però sapevamo che pur se le facilitazioni erano molto agevolate, le procedure per ottenere questi riconoscimenti e i supporti economici avevano dei loro tempi burocratici che seppur abbreviati rispetto ad altri profughi, non sono certo immediati.
Ad un certo momento, senza darci spiegazioni, l’atteggiamento della madre nei nostri confronti è virato di 180 gradi. E così da un giorno all’altro, il 27 aprile, ci hanno detto che volevano lasciare Celleno e hanno chiesto di essere portate a Viterbo dove avrebbero alloggiato temporaneamente alla Caritas per poi tornare in patria.
E così è stato: non solo non abbiamo potuto ma neanche voluto contrastare questa scelta che ci appariva quanto mai improvvida, ma non siamo neanche riusciti ad avere spiegazioni plausibili.
Spiegazioni che abbiamo dovuto provare a ricostruire a posteriori, parlando con altri che sapevano di storie simili e deducendo da alcune parole e frasi emerse durante la loro permanenza possibili motivazioni.
La prima è che molto probabilmente non erano fuggite perché la guerra era davvero accanto a casa loro. Certamente c’era, ma era ancora lontana. E allora hanno colto al volo la possibilità di provare a cercare fortuna in Europa occidentale, vista la grande emozione che la guerra e il conseguente flusso di profughi aveva generato.
La seconda motivazione è riconducibile alla presenza delle due giovani figlie. Per i bambini ma soprattutto per le giovani adulte – ai maschi non è concesso di lasciare il paese – stare lontano dalle loro amicizie, dai loro fidanzati, dalla comunità giovanile di riferimento è estremamente difficile. Tendiamo a ritenere che questo aspetto potrebbe essere stato di primaria importanza nel far decidere alla famiglia di imbarcarsi in un lungo viaggio di ritorno.
“Tutto è bene quel che finisce, e basta” ripete spesso uno dei protagonisti de La Compagnia dei Celestini, romanzo di Stefano Benni. Certo avremmo voluto che il loro passaggio nella nostra vita, un po’ come meteore, fosse terminato in maniera meno traumatica.
E ora non resta che pensare con le stesse parole alla guerra in corso: “tutto è bene quel che finisce, e basta”.