Pietro Tamburini è molto lontano dallo stereotipo che vuole un pensionato rallentare i propri ritmi di vita. Energico, spiritoso e pungente, continua a tutt’oggi la sua attività come storico, archeologo e divulgatore scientifico, come solo quelli veramente appassionati del nostro territorio riescono a fare. «La Tuscia è una terra che ha infinite anime, infiniti aspetti. È capace di meravigliare in migliaia di modi diversi: basta darle la parola». Nato a Viterbo nel 1953, ma bolsenese da sempre, Tamburini vanta un curriculum di raro prestigio. Laureato in Etruscologia e Antichità Italiche presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Perugia, per vent’anni Tamburini è stato direttore scientifico del Sistema Museale del Lago di Bolsena, conosciuto anche con l’acronimo SiMuLaBo. Come archeologo ha partecipato a numerose campagne di scavo, in Italia e all’estero. Nel 2002 è stato nominato socio collaboratore dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria e nel 2005 dell’Associazione Italiana di Studi Museologici. Svolge incarichi di libera docenza sia di archeologia sia di museologia presso varie università. È autore di oltre un centinaio di pubblicazioni scientifiche, tra cui dieci monografie, con particolare riferimento agli ambiti della protostoria, dell’etruscologia, dell’archeologia romana, della storia medievale e della museologia.
«Eppure la mia professione di archeologo è stata del tutto casuale, anche se fin dai tempi del liceo classico a Orvieto, in sella ad un Benelli 125, già me ne andavo in giro per i siti archeologici della Tuscia a vedere e a scoprire le antichità etrusche». Al momento dell’iscrizione all’Università di Perugia però, Tamburini non scelse subito una facoltà che gli avrebbe permesso di praticare la sua passione per l’archeologia. «La mia scelta iniziale cadde su Scienze Politiche, pensando ad una eventuale carriera diplomatica che mi avrebbe permesso di girare il mondo». Ma l’ostacolo insormontabile rappresentato dalla matematica gli fece – fortunatamente – cambiare indirizzo, e prima della fine dell’anno si iscrisse a Lettere Classiche ad indirizzo archeologico. « Iniziai a fare scavi e a pubblicare. Tra docenti e studenti di archeologia si stabilì un reciproco rapporto di amicizia e di confidenza. Mi trovavo talmente bene in quell’ambiente che rimasi all’università sei anni, anziché quattro». La vita accademica lo portò a conoscere Giovanni Colonna, «il più grande etruscologo mai esistito, autore di oltre 700 pubblicazioni scientifiche che hanno apportato un contributo sostanziale all’etruscologia, disciplina tra le meno facili da studiare e più passibili di attacchi da parte di coloro che esperti non sono». Nel 1978 conseguì la laurea e nello stesso anno, dietro consiglio e supervisione del prof. Colonna, superò il concorso di ammissione alla Scuola Nazionale di Archeologia presso “La Sapienza” di Roma. Nel 1983 venne ammesso per concorso al dottorato di ricerca in Etruscologia, e nel ’92 vinse una borsa post-dottorato di due anni. «Contemporaneamente, avevo iniziato il percorso dell’abilitazione all’insegnamento, ma vincendo il dottorato abbandonai quella strada. Con il senno di poi, tornando indietro probabilmente non ripeterei quella scelta: farei l’insegnante». Affermazione che spiazza, se pensiamo che Pietro Tamburini, durante la sua vita professionale da archeologo, ha contribuito a creare qualcosa di finora unico.
«Nel ‘90 partecipai all’allestimento del Museo territoriale del lago di Bolsena, ospitato a Bolsena presso la Rocca Monaldeschi, e venni nominato direttore e coordinatore scientifico, carica che ho mantenuto fino al 2020. Nel 2000 il Museo è divenuto capofila del Sistema Museale del Lago di Bolsena, inaugurato quell’anno su iniziativa della Regione Lazio, e incentrato sull’area settentrionale della Tuscia. A tutt’oggi è l’unico sistema museale del Lazio con sede stabile». Nato per ottimizzare le economie di scala, il Simulabo è un’associazione intercomunale incentrata sulla zona di Bolsena, costituitasi unendo assieme i comuni che possedevano strutture museali all’interno del bacino lacustre e nel circondario. «Nei decenni in cui ho avuto l’onore di coordinarlo, il sistema è cresciuto notevolmente, andando ad “invadere” territori circostanti con origini e caratteristiche diverse. Dalle iniziali 10 strutture siamo passati a 14, ed è cresciuto il numero degli interventi e degli obiettivi che si prefigge. Con l’adesione dei musei di Lubriano, nella Teverina, e di Cellere, in Maremma, copriamo un arco geografico trasversale, tanto da rendere il riferimento al bacino lacustre puramente convenzionale. Ha fatto domanda di adesione pure il comune di Monteromano, che ha un museo archeologico importante. Non abbiamo potuto dare seguito alla richiesta perché si trova in un’area diversa dalla nostra e nemmeno confinante. Ma dimostra come anche quel comune abbia compreso l’importanza della nostra istituzione e quella di farne parte, perché possiamo fare tutti assieme ciò che i musei singolarmente non potranno mai realizzare». Gli scopi fondamentali del Simulabo sono tre: promuovere il territorio di riferimento in ogni modo e ad ogni livello, interagire con l’ambito scolastico, portare avanti la ricerca scientifica e la divulgazione. «Attraverso i nostri approfondimenti produciamo materiale cartaceo e digitale per decodificare e divulgare le anime del nostro territorio, l’essenza dei valori che lo hanno modellato dalle origini fino ai giorni nostri. Ci sono tante cose da insegnare, da sfatare, da meravigliare… cose che nessuno si aspetterebbe mai. Sono obiettivi difficili da raggiungere, ma noi continuiamo strenuamente a perseguirli». Quali sono le anime della Tuscia? «Ad esempio la vulcanologia come anima geologica; le necropoli rupestri come anima storica, la festa di Santa Rosa e le testimonianze della civiltà contadina come anima antropologica… La Tuscia esprime un’infinità di aspetti, ognuno meritevole di una sua istituzione museale. Quello che ci siamo prefissi di ottenere è un sistema culturale, che approfondisca e divulghi le anime del territorio, e che soprattutto produca qualcosa di più rispetto a quanto ottenibile dai singoli musei. In quest’ottica, ogni museo deve esprimere un tema diverso dagli altri e mai sovrapporsi agli altri. Il Museo del Fiore di Acquapendente documenta la flora e fauna di quel luogo ma anche di tutto l’Alto Lazio. Il Museo della Terra di Latera documenta la civiltà contadina ottocentesca, non soltanto di Latera ma di tutto il comprensorio. Il Museo di Grotte di Castro è di etruscologia, ed interpreta la decodificazione di questo tema per tutto il territorio sistemico. Quello di Bolsena non illustra nessun tema specifico ma accoglie ed indirizza il visitatore: presso il centro visite c’è una grande carta retroilluminata dell’Alto Lazio in cui sono indicati tutti i musei del Simulabo. Del resto a Bolsena converge il 90% dei flussi turistici diretti al lago: italiani, ma anche e soprattutto francesi, tedeschi, olandesi. È naturale che qui vi sia il museo madre, in grado di pubblicizzare l’istituzione al maggior numero di persone possibili».
Il Simulabo è così un grande museo diffuso, che fornisce al visitatore che effettua il tour l’informazione più completa su tutto il nostro territorio. È la concretizzazione del “fare rete”, concetto vincente che spesso rimane per lo più sulla carta. «Penso ad una catena fatta di tanti diversi anelli, ognuno dei quali esprime un singolo tema. Una catena che potrebbe anche non finire mai, perché infinite sono le anime del nostro territorio».
Non è poi così azzardato sperare che un giorno anche Viterbo possa far parte di questa catena virtuosa.
Centro visite sistema museale del Lago di Bolsena