“Sentimenti di-versi”, la raccolta di poesie di Monica Saraca, la sua anima a passo lento

di Donatella Agostini

monica saraca

Tonino Guerra, poeta e scrittore, una volta ha scritto: «Bisogna creare luoghi dove fermare la nostra fretta. E aspettare la nostra anima». Luoghi del cuore, sempre più rari da trovare in questa società ipertecnologica, velocissima, liquida, dove la nostra anima ci possa finalmente raggiungere. Momenti in cui possiamo soffermarci a riflettere, magari leggendo una poesia. «Siamo bombardati da tante cose inutili, diamo valore a ciò che in realtà non ne ha. Una poesia ti può far staccare e riflettere su quelle che sono secondo me le vere priorità della vita, le cose più importanti. Ti può riportare con il pensiero a ricordi belli, che avevi dimenticato. È importante prendersi un po’ di tempo. Leggere una poesia, e trovarci qualcosa. Leggerla qualche giorno dopo, e trovarci altro». Siamo tornati a parlare con Monica Saraca, autrice  poliedrica di romanzi come “Diario di una cassiera – il sorriso dietro la mascherina” e di “Airam”. Nel primo ci aveva raccontato la cronaca semiseria della sua esperienza lavorativa in tempi di pandemia. Con “Airam” si era cimentata nel fantasy, regalandoci atmosfere da sogno e avventure avvincenti. Con la raccolta di poesie “Sentimenti di-versi”, Monica ci spiazza ancora una volta, regalandoci la versione più autentica e indifesa di sé.

Monica ci aveva confessato che da tempo scriveva poesie, ma che le teneva per sé. L’unica persona a cui le leggeva era suo padre, che un giorno le fece promettere che le avrebbe pubblicate. «È vero», racconta. «Questo libro è frutto di una promessa fatta e poi mantenuta. Speravo in tempo per farglielo vedere, ma non ci sono riuscita. Ci è voluto un po’ di tempo, ma non perché non fosse pronto. Non ero ancora pronta io, a mettermi così a nudo». La copertina del libro è sfumata di gradazioni di un blu sereno, e c’è l’immagine di un gabbiano che vola riflettendosi sulle acque di un lago. Il titolo della raccolta, “Sentimenti di-versi” suggerisce una doppia interpretazione. «Quella di copertina è una mia foto, come quelle che si trovano all’interno della raccolta. Mi piace l’accostamento di immagini e parole. Il gabbiano che si riflette sull’acqua sta a rappresentare i sentimenti presenti nei versi delle poesie, ma anche la loro eterogeneità. Le tematiche sono comuni: c’è dolore, amicizia, amore, c’è vita quotidiana. C’è la mancanza di qualcuno che non c’è più, che si fa presenza comunque. C’è la voglia di trovare il coraggio, la speranza… sentimenti che tutti provano nella vita». Il linguaggio è delicato, limpido, accessibile. Soltanto in un caso si fa più aspro, più disilluso, nella poesia dedicata ad una donna che ha subito violenza. «Non c’è più il tempo di utilizzare un altro tipo di linguaggio: non c’è più posto per la pazienza, per l’umana comprensione, nei confronti di coloro che quotidianamente usano violenza contro le donne».

Spesso di fronte ad un’opera d’arte ci sentiamo spiazzati, e vorremmo chiedere all’autore cosa abbia voluto esprimere con essa. E con ogni probabilità, quell’autore ci risponderebbe chiedendoci a sua volta che cosa vediamo noi in quell’opera d’arte. Forse ciò è valido anche per la poesia. «È possibile, perché magari in una poesia io credo di trasmettere un concetto, poi in realtà alla persone arriva tutt’altro. Nella poesia non è tutto bianco o tutto nero, ci sono tante sfumature, per cui tu che la leggi percepisci quello che in quel momento nella tua vita ti colpisce in maniera particolare. Per la poesia “Prendimi per mano”, c’è stata una signora che mi ha detto: ti ringrazio per averla scritta, perché io l’ho dedicata a mio figlio, che non c’è più. Mi sono stupita, perché per me quella poesia è dedicata a chi è in difficoltà e chiede aiuto. A volte senti anche la responsabilità di quello che scrivi. E ad un evento, nel quale abbiamo presentato il libro, c’erano delle persone che io non conoscevo. Una di loro è venuta da me, commossa, spiegandomi che alcune cose che io avevo letto l’avevano toccata nel profondo. “Hai messo per iscritto ciò che io non sono mai riuscita a dire”.

Nei suoi due precedenti romanzi, Monica Saraca ha messo sempre tanto di sé. Scrivere poesie però implica maggiore sincerità. «Il romanzo ti consente di “edulcorare” le situazioni, di mimetizzarle in qualche modo. La poesia è spietatamente sincera, non si può cambiare. E non so perché abbia scelto proprio queste poesie: non sono tutte quelle che ho scritto nell’arco degli anni. Legate ad episodi della mia vita, felici o meno. Secondo me è più facile scrivere poesie nel momento del dolore, perché in qualche modo lo esorcizzi, butti fuori quello che hai. Ho cominciato diversi anni fa, proprio quando è morta mia nonna… ho scritto una poesia per lei, e poi ho proseguito. Una sorta di scintilla che è partita. Mi è capitato di scrivere versi in piena notte, sull’onda di un avvenimento che mi aveva colpita». Spesso si pensa alla poesia come ad un genere passato di moda, o destinato a persone di una certa età. «Non è esatto. Leggendo una poesia puoi ritrovare esperienze, sentimenti, ricordi. Certo, più esperienza di vita hai alle spalle, più hai materiale che ti fa da specchio. Ma anche un giovane può ritrovarsi in una poesia, perché magari quei suoi pochi anni di vita sono stati ricchi di esperienze. Ad un evento editoriale a cui ero presente è venuta una ragazza, alla ricerca di un fantasy. Le ho parlato di “Airam”, le è piaciuto e l’ha preso. D’istinto, le ho regalato il mio libro di poesie. In quarta di copertina ha letto questa frase: “Verrà il giorno in cui tutto cambierà, dove all’arcobaleno non servirà un temporale, e dove alla rosa non serviranno spine…”. Dopo mi ha confessato: questo libro è ciò che mi serviva in questo momento». Tra le tante poesie della raccolta, c’è sicuramente qualcuna alla quale Monica è legata più che alle altre. «C’è una poesia a me particolarmente cara. Era il giorno dell’anniversario della scomparsa di mia madre, passeggiavamo con mio padre e gliel’ho letta. Piangevamo a dirotto tutti e due. Lui, un tipo scherzoso e autoironico, ha esclamato: adesso devi scriverne una anche per me. Non posso scrivere una poesia anche per te, sei ancora qui – gli ho detto – Perché dovrei scriverla prima? Lui mi ha guardato e ha risposto: perché se non mi piace la cambi. Era un tipo così, mio padre. Alla fine gliene ho scritte due. E se sono qua in fin dei conti, la “colpa” è sua». Conclude così, sorridendo, Monica Saraca, romana di nascita ma montefiasconese da molti anni, l’autrice che ama ancora scrivere a penna. Soprattutto di notte, quando ricrea, tra fogli e foglietti, il suo personale luogo del cuore, in attesa che arrivi la sua anima a passo lento. E a noi non resta che aspettare una sua nuova, sorprendente creazione.

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