Quaranta anni possono essere tanti o pochi. Senza dover tirare in ballo Einstein e la sua teoria della relatività, si può con legittima certezza affermare che nell’esistenza di una compagnia teatrale quaranta anni, in genere, sono tanti. Non possono essere troppi però se ci si chiama “Compagnia dei Giovani”. Quasi a ribadire che se le prime rughe e il colore dei capelli (quando ci sono ancora) sono lì a confermare i connotati della carta d’identità, lo spirito non cambia. Non può cambiare. Angelo Frateiacci, alla soglia dei 64, è il continuatore dell’esperienza della Compagnia, iniziata agli albori degli anni Sessanta con lo scomparso Alberto Corinti. Angelo spesso è il protagonista, talvolta il regista degli spettacoli, sempre il revisore dei conti dell’associazione. Non fosse altro perché di mestiere fa il commercialista.
Dai numeri alla scena, un bel salto. Come arriva al teatro?
“Per sbaglio, dopo preziose esperienze con Radio Verde, Televiterbo, Rts. Siamo a fine anni Settanta Alberto Corinti riunisce un gruppo di ragazzi con l’intento di far ripartire il teatro a Viterbo. E li recluta nella parrocchia di Villanova dove regna il mitico don Armando. Nel mese di maggio, c’è il cosiddetto “dopo cena”, fatto di serate di arte varia che si svolgono nella chiesa. Nel locale sottostante è stato ricavato uno spazio nel quale si comincia ad allestire qualche recita. Più precisamente, loro, cioè Alberto e don Armando, iniziano a fare teatro con un testo dello stesso Alberto, “Giorni Felici”. E’ il 1979. Uno dei ragazzi lascia la scena e Aberto mi fa un provino in sagrestia. Va bene, promosso. A proposito di scene, erano uniche quelle che improvvisavano tra loro, Alberto e don Armando. Si volevano un bene dell’anima, ma c’era un rapporto conflittuale perché la parrocchia era un autentico porto di mare”.
Ovvero?
“Per esempio, quando si facevano le prove magari contemporaneamente provava anche la banda dei bersaglieri”.
Il suo primo incontro con Alberto Corinti…
“In sagrestia, l’ho detto. Poi un rapporto di profonda stima ed amicizia. Ma non sarà facile. Lui aveva un problema, gli occhi storti, e tu non sapevi mai qual era l’occhio con il quale ti inquadrava. Siccome aveva sempre un’espressione severa, ti metteva in soggezione. Poi negli anni, ovviamente, quello sguardo non mi condizionerà più”.
E dopo Alberto Corinti?
“Ho lavorato con Stefano Piacenti, Pier Maria Cecchini, Maurizio Annesi. Qualche esperienza su Roma. Con Michele Palazzetti, prima della pandemia, abbiamo messo in scena “Non aspettando Godot”, e lo abbiamo portato a Milano, Bologna, Palermo, Napoli. Un tour meraviglioso”.
La compagnia dei giovani è nata e vive a Viterbo. Il suo rapporto con Viterbo?
“Ho letto proprio su TusciaUp l’intervista con lo storico del teatro e regista Quirino Galli, il quale sostanzialmente rimprovera alla città una scarsa sensibilità culturale. Be’ non posso non essere d’accordo. Fino a quando siamo rimasti a Villanova, noi della Compagnia, avevamo il nostro spazio, poi il vento è cambiato e siamo diventati nomadi: a Bagnaia in un capannone che prima era stato una stalla, a Vitorchiano dove c’erano le pecore”.
Nessun sostegno dalle varie amministrazioni comunali..
“Sino alla fine degli anni Ottanta, ci venivano concessi il teatro Unione gratis una volta all’anno e due milioni di rimborso. Poi è cambiato tutto. Niente teatro e niente più contributi. L’ultimo spettacolo, “Il prigioniero della seconda strada”, prima di quello rappresentato nella rassegna del mese scorso, lo abbiamo dato a Tuscania perchè l’Unione non era disponibile e il San Leonardo neppure”.
Tanta amarezza, possiamo immaginare.
“Io sono consigliere Uilt, Unione Italiana Libero Teatro, e garantisco che esistono realtà ben diverse, realtà che possono contare su strutture e contributi più o meno importanti. Noi niente. Una decina di anni fa, con l’allora sindaco Giulio Marini, individuammo la chiesa di sant’Orsola per dare un sito adeguato a un progetto che si chiamava “Spazio alla cultura”. Avrebbe dovuto ospitare noi della Compagnia dei Giovani, un teatro delle marionette, corali ecc. Non se ne fece nulla perché se c’era la volontà non c’erano i soldi per ristrutturare la vecchia chiesa”.
Sta cambiando l’aria? Il vice sindaco nonché assessore alla Cultura, Alfonso Antoniozzi, ha assicurato, per esempio, continuità al festival che si è appena concluso.
“Assolutamente sì. Senza Antoniozzi il festival non lo avremmo realizzato anche per cavilli burocratici di ogni genere”.
Risultato della rassegna?
“Positivo. Il pubblico ha risposto soprattutto negli spettacoli messi in scena da compagnie locali. E questo è un robusto viatico per il futuro. Però bisogna interessare di più i giovani perché il teatro è scuola di vita. Attenzione non è un problema solo viterbese. Come fare? Francamente non lo so e sono preoccupato. Anni fa abbiamo cercato, attraverso inviti pubblici e locandine, di attrarre i ragazzi. Hanno telefonato una, due persone”.
Coinvolgere la scuola, per esempio?
“Certamente è una strada, ma poi servono gli spazi. Noi le prove dell’ultimo spettacolo le abbiamo fatte qui dentro, nello studio dove lavoro, e da Don Luca Scuderi. Ho detto tutto”.
Rammarico, ma pure speranza, pare di capire.
“In effetti è così. Per preparare il festival sono stati necessari più di sei mesi. Un impegno non da poco, appesantito da difficoltà finanziarie e logistiche. La nostra è davvero una attività di volontariato. E’ fondamentale il gruppo: l’amicizia, il gioco, lo scherzo. Quando si dice, il piacere della cena dopo lo spettacolo. Tutto vero, perché a tavola c’è lo scarico dell’adrenalina dopo lo spettacolo e lì parte il cazzeggio totale”.
Appuntamento al festival del prossimo anno?
“Sì, ma la rassegna va arricchita abbracciando altre realtà locali e magari arrivare a una dimensione di concorso internazionale. Ci stiamo lavorando. Nonostante tutto”.


