Suo padre Silvio, che a furor di popolo fu considerato all’epoca uno dei migliori sindaci di Viterbo, era soprannominato “il contadino”. E lui, Raffaele – 54 anni da compiere il prossimo dicembre – potrebbe tranquillamente appellarsi come “l’architetto santarosaro”, visto il cordone ombelicale che da decenni lo unisce alla patrona viterbese, alla Macchina, al Sodalizio e a tutto il resto. Oltretutto, con quella barba bianca che recentemente si è fatto crescere, ha assunto un’aria ancora più austera, quasi da padre priore, che lo avvicina ancora di più all’evento che da secoli è il fiore all’occhiello della Tuscia.
Per quei pochissimi che non lo avessero ancora compreso, il personaggio in questione è Raffaele Ascenzi, ideatore di “Gloria”, la Macchina di Santa Rosa che ieri sera ha sfilato per l’ultima volta per le vie del centro storico, registrando l’ennesima ovazione di popolo.
Di Macchine in realtà, lui ne ha ideate due. Prima di “Gloria” c’era stata “Ali di luce”, vincitrice nel 2003. E una terza, che nel 2009 arrivò decima “insieme a quella di Franco Zeffirelli – ci tiene a sottolineare lui – e per me è stato un grande onore”. Poi aggiunge: “Credo di essere stato l’unico facchino a portare una Macchina realizzata dallo stesso ideatore. Accadde proprio nel 2003, col mio ultimo trasporto”.
Insomma, Ascenzi e Santa Rosa, un connubio quasi perfetto, cominciato sin da bambino…
“E’ vero – esordisce – perché io ho cominciato a respirare la viterbesità e a respirare il profumo delle mura grigie del centro storico già in tenera età. Ricordo i primi anni dietro a un pallone (ho giocato per qualche anno coi ragazzi del Pianoscarano), ma soprattutto quell’iniziativa che purtroppo durò pochi anni: al Carmine fu organizzata la sfilata di una mini-Macchina ed io facevo parte della pattuglia dei mini-facchini”.
Fu quella la scintilla?
“Sì. Lì nacque e si consolidò il mio amore per Santa Rosa e per tutto il suo contorno. Erano gli anni ’70 e io di anni ne avevo appena nove. In fondo, a pensarci bene, le mini-macchine sono ancora oggi un veicolo importantissimo per alimentare nei ragazzi il desiderio e la voglia di arrivare a portare la Macchina più grande, entrando nel Sodalizio”.
La prima prova?
“A 17 anni. Ero minorenne e dovette accompagnarmi mio padre, che firmò la liberatoria, anche grazie ai buoni uffici di Nello Celestini. Ma non fui preso”.
E poi?
“Ci riprovai l’anno dopo, con ancora più vigore e determinazione. E stavolta andò bene. Era il 1987. Fui messo alle corde e ci rimasi anche l’anno successivo. Nel ’90 andai finalmente sotto. Fu l’ultimo trasporto di ‘Armonia celeste’ e fui messo a spalletta fissa sinistra, in prima fila, data la mia altezza. Lì sono rimasto per 20 anni. Ho portato quattro Macchine, compresa la mia”.
Nel frattempo frequentavi l’università…
“Sì, ma volli andare subito a fare il militare. Fui ufficiale nei paracadutisti. Anche quella fu per me una scuola di vita. E poi, il Corpo dei paracadutisti richiamava in qualche modo Viterbo, perché proprio qui era nata la prima scuola di questa specialità dell’esercito. Tanto è vero che ancora oggi i battaglioni si chiamano ‘Tarquinia’, ‘Tuscania’, e via dicendo”.
Torniamo però all’università…
“Sì. Frequentavo quella di Firenze. E, arrivato all’ultimo esame in progettazione di grandi opere, chiesi al professore di poter fare la tesi sulla Macchina di Santa Rosa”.
E lui come la prese?
“Ovviamente non la conosceva, ma ne fu molto incuriosito. La Macchina non era propriamente una grande struttura, tipo ad esempio un ponte, ma aveva una particolarità che la rendeva associabile: quella delle fondazioni, costituite da uomini e non da blocchi di cemento armato”.
Poi nacque l’idea di partecipare al concorso del 2003…
“Ero ancora facchino e avevo quasi finito architettura. Sentivo di avere tutte le potenzialità per poter esprimere un buon progetto. Le capacità tecniche me le stavo formando. Ma c’era un aspetto molto importante: quello di aver trasportato Macchine; quindi quello di poter vivere la città, sia a contatto con gli altri facchini, sia col pubblico. Dalla mia postazione riuscivo a captare le emozioni delle persone. Il mio obiettivo da progettista era quello di emozionare con un oggetto non solo bello, ma che fosse in grado di provocare grandi suggestioni”.
E allora?
“Vinsi l’appalto concorso insieme a Contaldo Cesarini. All’epoca si doveva presentare il progetto esecutivo con un bozzetto in scala 1:20. Ci presentammo solo in quattro. Poi, nel 2009, le cose cambiarono e fu istituito il concorso di idee. Tanto è vero che ci presentammo in 64, compreso Zeffirelli, come avevo accennato prima. Arrivai decimo”.
Che ricordi hai di quel primo concorso?
“Credo che ‘Ali di luce’ fosse una Macchina molto difficile da comprendere. Soprattutto per quel meccanismo di apertura delle ali, ideato da un giovanissimo architetto. Era un’idea originale e innovativa ma che metteva la commissione in forte imbarazzo, data la novità. Devo molto alla competenza dell’ingegner Ivan Grazini, che fu determinante. La Macchina si rivelò un successo ed entrò in breve tempo nel cuore dei viterbesi”.
Poi è arrivata “Gloria”…
“Sì, e questa è la chiusura di un cerchio che, per quel che riguarda il periodo delle Macchine contemporanee, è inquadrabile nel filone cominciato nel 1967 col ‘Volo d’angeli’. ‘Gloria’ è una Macchina matura, come sono maturato anche io”.
Tra le due tue creature, quale preferisci?
“Sono due atteggiamenti diversi, come per due sorelle. La prima rappresentava il periodo in cui io mi ero posto davanti al foglio bianco, la seconda è l’immagine della mia maturità. Ma le emozioni sono associabili. Un particolare: quando ideai ‘Ali di luce’ ero single e non avevo famiglia. Quindi ho vissuto tutte le emozioni in prima persona. Oggi, con ‘Gloria’ le condivido tutte con la famiglia, moglie e tre figli. Una curiosità, molto importante: la mia prima figlia, che nel 2015 aveva tre anni, aveva un volto riproducibile, tanto è vero che è stato scansionato e su di esso è stato realizzato il viso della statua di Santa Rosa, che sta in cima alla Macchina”.
Oggi si saprà il vincitore del nuovo concorso…
“L’asticella si è alzata di molto. Non dico che la gara sia appannaggio esclusivo dei professionisti del settore, ma la complessità è aumentata. E’ vero che il Comune ha preferito di nuovo il concorso di idee, ma chi ha intenzione di vincere deve produrre anche un progetto esecutivo e nella busta segreta ci deve essere l’asseverazione di un tecnico. Tanto è vero che dalla sessantina di concorrenti delle scorse edizioni, oggi siamo solo in 17”.
Beh, allora in bocca al lupo a tutti. Per non far torto a nessuno…
Foto.Nella Macchina i nomi dei propri cari scomparsi su apposite targhette