Tuffarsi nello Spazio narrato – titolo della mostra di Publio Muratore al ridotto del teatro Verdi di Viterbo aperta fino al 6 gennaio – è come fare un viaggio a ritroso nell’Italia delle scenografie ancora dipinte a mano, delle stoffe dapprima sognate e poi ricamate, dei bozzetti preparatori e delle loro realizzazioni su grande scala. In un’epoca in cui la tecnologia ha sostituito la tecnica, immergersi nel mondo di un maestro di bottega, dedito all’insegnamento e ad un intenso, instancabile lavoro creativo è un’esperienza da vivere e su cui riflettere.
Quella di Publio Muratore, classe 1918, è stata una vita in salita, segnata dall’esperienza dei campi di concentramento da cui si salvò grazie alla sua arte, unico salvacondotto in un mondo di aguzzini vanesi che gli “commissionavano” schizzi e ritratti. La sua preparazione, accademica e universitaria, lo porterà ad esprimersi in tutti i linguaggi artistici. Dalla pittura alla scultura, dalla ceramica al disegno, Muratore esplora tutte le tecniche – matita, carboncino, tempera, olio, affresco, creta, pietra – inventando, perfino, una Casa Museo in stile Art Deco, capace di immergerlo nella sua stessa fantasia e creatività. Visitando quello spazio, integralmente custodito dalla famiglia, in via della Grotticella, si percepiscono il cuore e l’anima dell’artista, la sua dedizione totale, il suo progetto a tratti olistico nell’esprimere dei contenuti inseriti in un contenitore tanto ideale, quanto sublime. La bellezza, sempre perseguita e narrata, diviene così il contraltare di nomi che risuonano inenarrabili: Buckenwald, Mauthausen, Ravensbruck… nomi che resteranno chiusi nel mistero dell’uomo e che neanche la tragedia del tratto – eccezion fatta dei quadri ad olio a spatola – rivela. Proprio qui, il pittore riesce a trovare una cifra quasi espressionista. Proprio qui l’urlo interiore si propaga nella spazialità data dalla materia stessa della pittura. Proprio qui possiamo intuire la ferita dell’arte che diviene feritoia, luce improvvisa e cangiante in un mondo di ricordi immemori.
Come intelligentemente rivela l’allestimento, curato dal nipote dell’artista, Vincenzo Publio Mongiardo, lo spazio è il vero protagonista dell’opera del maestro: lo si intuisce in una quinta teatrale, lo si scorge in un’architettura del borgo, lo si tocca nei lembi vividi del colore acceso ed increspato o nell’eco di flauti e violoncelli sapientemente ritratti. Tutto è spazio per non essere tempo. Il tempo è infatti congelato, sospeso, interrotto. Nonostante la scenografia sia l’arte di mettere in prospettiva oggetti e cose, nella pittura di Muratore non c’è un “prima” e un “dopo”. Nel qui non c’è un “allora”, c’è invece un “ora”. Perché è solo nell’istante che l’uomo vive e non rivive. Ed è nell’istante narrato che Publio Muratore vive e non sopravvive, un istante eternizzato dalla sua arte.
*storica dell’arte