Teatro: forse nessun altro termine riesce a esprimere meglio l’idea di pluralità. Che sia per la maestria di un attore, che riesce a infondere nella sua prova tutte le infinite facce di sé stesso. Che sia per la sinergia di tecnici, registi e attori, che lavorano insieme per produrre la magia splendida ed effimera di uno spettacolo: il teatro è coralità, e forse è per questo che il racconto di Andrea Maurizi non è mai autoreferenziale. Origini sabine, una robusta carriera davanti e dietro le quinte, oggi Maurizi è il responsabile per ATCL, l’Associazione Teatrale dei Comuni del Lazio del Teatro Unione di Viterbo, che ne cura la programmazione stagionale. Lo incontriamo nel foyer, nell’andirivieni di tecnici impegnati al prossimo allestimento. Intorno, le numerose locandine dei prossimi spettacoli in cartellone evidenziano il risveglio dal sonno forzato imposto dalla pandemia. «L’anno scorso c’era ancora parecchia paura di tornare nei luoghi affollati», esordisce. «Qui non sono l’unico rappresentante di ATCL: ci sono anche Simona Mainella, Giovanni Di Mascolo che è responsabile tecnico, poi si sono aggiunti Pierpaolo De Francisci e Marco Marsili, perché quest’anno gli eventi sono notevolmente aumentati. Nel teatro le cose si fanno grazie a un esercito di persone che gravitano attorno, dalle mascherine alla ditta che fa le pulizie, e grazie alla collaborazione con gli uffici del Terzo Settore». La stagione teatrale 2022/23 ha già visto avvicendarsi sul prestigioso palco del nostro Teatro nomi di assoluta qualità, e prosegue con numerosi altri titoli di richiamo fino alla fine di aprile. «Curiamo la programmazione, mentre la gestione della struttura intesa come edificio è in capo al Comune. Non essendoci qui dipendenti comunali, seguiamo noi tutti gli eventi, anche quelli non nostri».
Per Andrea Maurizi il percorso personale è caratterizzato dal persistente filo rosso chiamato teatro. «Partiamo dal presupposto che se io sto dentro a un teatro sto bene», afferma sorridendo. «Ho cominciato a fare teatro a tredici anni, nella compagnia amatoriale che dirigeva mia sorella. Eravamo un gruppo di ragazzi e siamo cresciuti facendo teatro; alcuni hanno deciso di provare a farlo anche nella vita. Abbiamo creato una nuova associazione, tuttora esistente, il Teatro delle Condizioni Avverse: appena ventenni vincemmo un importante bando, quello delle Officine Culturali. Frequentavo il DAMS a Roma ma interruppi gli studi, perché ci sembrava di poter realizzare il sogno di vivere di teatro, facendolo nel luogo dove eravamo nati». Con il Teatro delle Condizioni Avverse Andrea realizza l’Officina Culturale della Bassa Sabina, lavorando su decine di comuni della provincia di Rieti, ma anche Roma e Viterbo; organizza rassegne e festival, mette in scena spettacoli, si mette alla prova come drammaturgo. «Loro continuano ancora oggi ad operare sul territorio, malgrado le difficoltà, anche legate agli spazi: in Sabina se non hai uno spazio adeguato, più di tanto non riesci a fare». All’inizio degli anni Duemila, Andrea ha iniziato a lavorare nei teatrini off di Roma, «dove non era consuetudine pagare gli attori, ma i tecnici sì», continua. «Così ho imparato a fare il tecnico, il direttore di scena: mi si è aperto un mondo, dal punto di vista della formazione professionale. Ho lavorato sette anni al Teatro Verde, il teatro per bambini più antico di Roma, come attore, pedagogo, tecnico, responsabile della comunicazione: anche lì una bella formazione. Fino a quando l’ATCL un giorno non mi ha chiamato per “buttarmi nella mischia” viterbese». La realtà viterbese era già nota ad Andrea, che qui a Viterbo aveva fatto le prime tournées, con il Teatro San Leonardo. «Abbiamo fatto un po’ di spettacoli, girando per l’Italia, insieme a Marco Paoli, Paolo Manganiello, Chiara Palumbo, Gianni Abbate… anche quello è stato un bel periodo, avevo vent’anni. In generale ho sempre preferito lavorare in situazioni dove le compagnie realizzavano quello che volevano, e magari portavano avanti un messaggio con una certa libertà. Ho sempre prediletto un “teatro di gruppo”». Verrebbe da dire: Maurizi è la persona giusta al posto giusto. «Guarda, in un teatro così non fai mai abbastanza. Quando sei dentro ad una struttura così grande devi stare attento a non fare sbagli. Qui si lavora gestendo vari fronti: il pubblico, gli artisti, i tecnici, e poi la struttura stessa, che è un teatro storico, e va fatta la manutenzione. E poi c’è un altro tipo di responsabilità, che sento ancora di più. Quando nel 2017 è stato riaperto l’Unione, e abbiamo cominciato a fare attività, mi colpivano gli occhi dei viterbesi che alla spicciolata venivano a vedere come era il Teatro dopo i lavori. Volevano vedere che fine avessero fatto i loro ricordi qua dentro. Questo ti investe di una responsabilità grande». I viterbesi venivano e lasciavano un ricordo, un pezzettino di sé, il racconto di una storia: la dimostrazione del loro senso di appartenenza a questo luogo. «Alla riapertura questo Teatro era sterile, vuoto: non una locandina, non un cimelio appartenente al passato. Con l’aiuto di Mauro Galeotti, di Sabrina Morbidelli e di un gruppo di cittadini viterbesi, abbiamo voluto fare un lavoro di ricerca e di raccolta della memoria orale collettiva dei viterbesi, raccogliendo vari ricordi legati all’Unione, da persone molto avanti negli anni ma con una memoria incredibile. Mi piace tantissimo lavorare sulla memoria: credo che dia consapevolezza alle persone. Noi cercavamo i ricordi delle persone comuni: spettatori, custodi, tecnici, maschere. Ci interessavano le piccole storie che danno la misura delle cose, ricordi che altrimenti sarebbero andati persi». Il lavoro di ricerca ha originato una mostra, e tanti aneddoti da raccontare. «A proposito del domino, ossia di quella lunga tunica nera con cappuccio che copriva l’intero volto, e che veniva indossata per Carnevale: all’inizio dicevano che era il mascheramento di coloro che non potevano permettersi un costume più costoso. Andando avanti con le interviste, venne fuori che il domino in realtà era uno strumento di emancipazione femminile. Molte donne indossavano il domino per uscire di nascosto dai loro fidanzati, padri o fratelli, e andavano ai veglioni, anche per controllare in incognito il comportamento dei loro fidanzati». Sicuramente il teatro ha perso oggi la posizione preminente nel contesto dell’intrattenimento, com’è vero che oggi nessuno penserebbe al teatro come luogo di elezione per gli appuntamenti amorosi. «Il teatro ha dovuto reinventarsi. Questo ha tolto ma anche dato: è esplosa la creatività. Il teatro sopravvive sempre, perché il contatto umano che hai a teatro è insostituibile». Come insostituibile è la sua funzione educativa e pedagogica nei confronti dei giovani. «Mi è capitato di lavorare in quartieri complicati, o in istituti scolastici. Ragazzi cosiddetti “problematici” venivano “curati” dal teatro. Penso a quanto sarebbero utili in questo senso i laboratori teatrali nelle scuole». Sarebbe bello che i giovani viterbesi si scoprissero appassionati di teatro. «Per i giovani è importante avere passioni, punto. Quella per il teatro poi, somiglia piuttosto ad una vocazione. Il mio professore d’università paragonava i teatranti ai ladri: nessuno ruba se non è costretto, nessuno fa teatro perché gli conviene». Piuttosto, lo fa perché lo ama.
FotoGallery:Teatro Unione, Enzo Bosso evento memorabile, lo spettacolo per la Rai “Che storia è la Musica”
La mostra sulla storia del Teatro Unione
Non solo nomi lo staff del Teatro dell’Unione
Il Foyer luogo di accoglienza della città propositiva