Più che semplicemente combattiva, un’attivista a tempo pieno: a Viterbo Carmela Grassotti è per tutti il volto instancabile dell’affido familiare grazie al suo quarantennale impegno come volontaria al fianco di Arlaf (Associazione Romana e Laziale per l’Affidamento Familiare) e non solo (ha militato tra le fila dell’Udi, portando avanti la battaglia per i nidi comunali a Viterbo).
Madre di due figli ormai cresciuti, nell’arco della sua vita Carmela e il marito hanno aperto le braccia a ben dodici bambini in affido temporaneo. Qualcuno è durato anche diversi lustri. Tra questi c’è Caterina, la loro più grande “sfida” nutrita di amore e sacrifici e che, tra alti e bassi, li accompagna da trent’anni. Caterina, oggi una donna adulta, è gravemente disabile e richiede un impegno costante ma per Carmela è “il perno attorno al quale ruota la nostra famiglia. Per lei ho dato tanto ma ho ricevuto di più”.
Cosa spinge una mamma a prendersi cura e carico di figli non suoi?
Il desiderio di far intravedere ai bambini fragili, provenienti da famiglie d’origine problematiche, un po’ di luce e di speranza. Ho sempre creduto che la solidarietà vada praticata, non ci si può limitare a osservarla a distanza, magari cavandosela con qualche donazione. Ho voluto trasmettere ai miei figli un esempio tangibile di amore verso il prossimo.
Eppure non è questione di mera generosità. Cosa c’è dietro scelte del genere e che difficilmente si riesce a comprendere dall’esterno?
L’affido è molto di più di un gesto generoso, è una sfida con se stessi, è una continua messa alla prova. Non è scontato trovare la chiave per stabilire una relazione di fiducia con i bambini, ci sono molte difficoltà, non da ultimo il confronto con le famiglie di origine e con i loro vissuti dolorosi. C’è stato un periodo in cui mi tenevo alla larga da bambini provenienti da famiglie con problemi di tossicodipendenza, ma ho superato anche questa paura. La verità è che con chi si prende cura dei propri figli si ha solo riconoscenza.
Come è cominciata l’avventura con Caterina?
È arrivata da noi da piccolissima. Quando abbiamo scoperto della sua disabilità psico-fisica i legami affettivi erano già saldi, così abbiamo proseguito fino ad arrivare all’affido a tempo pieno. Qualche anno fa abbiamo provato ad affidarla a una struttura della zona ma è stato un grande errore perché non era seguita e ha perso alcune competenze basilari che aveva faticosamente acquisito, così l’abbiamo accolta nuovamente in casa. Ho 76 anni, occuparsi di lei è dura, a tratti è un impegno disumano, ma vederla rinata è la più grande soddisfazione. Finché vivrò, lei sarà con me.
Come ci si prepara al dopo?
La legge del 2016, quella del cosiddetto “dopo di noi”, ha introdotto un passaggio importante che permette di regolare quel periodo di vita dei disabili successivo alla scomparsa dei genitori e dei familiari. In tal senso nel Viterbese è all’attivo un progetto ambiziosissimo che mi vede coinvolta insieme ad altri genitori di disabili gravi, riuniti nell’associazione il Campo delle Rose: l’inaugurazione di una struttura polifunzionale con all’interno una casa famiglia residenziale da dodici posti destinata ad accogliere disabili psichici gravi, con patologie riferite allo spettro autistico, al ritardo mentale e altre disabilità mentali. È in pratica tutto pronto, manca solo l’accreditamento della Regione. Spero non si riveli un fallimento, in questi lunghi anni ho perso un po’ di fiducia nelle Istituzioni. La legge è dalla nostra parta ma spesso ci sentiamo abbandonati e ignorati. Recentemente ci siamo anche rivolti allo studio legale di Cathy La Torre per cercare di ottenere risposte concrete da parte della Asl e del Comune di Viterbo. La sensazione è che a parole siano tutti pronti a sbandierare valori come autonomia e inclusione ma, di fatto, sono contenitori vuoti. Si fa ancora troppo poco per dare il giusto supporto alle famiglie.
Come è cambiato l’approccio al mondo dell’affido da parte delle famiglie e degli enti preposti?
In questi quarant’anni ho notato che da parte di potenziali affidatari l’interesse e l’accoglienza sono andate scemando: c’è più paura di mettersi in gioco, si è meno disposti a donare. Parallelamente negli ultimi cinque anni a Viterbo gli affidi sono drasticamente diminuiti, se non del tutto interrotti: si preferisce affidare i minori alle case famiglie.
La storia di Luca Trapanese, il primo papà single e omosessuale, a essere riuscito in Italia ad adottare una bimba ci mette di fronte a un nuovo modello di genitorialità. Lei cosa ne pensa?
Credo che l’adozione debba essere consentita anche alle famiglie monoparentali, a prescindere dall’orientamento sessuale. Per quanto riguarda l’affido c’è più flessibilità e devo dire che tutti i casi di single coinvolti in un affido che ho avuto modo di seguire sono andati benissimo.
A chi passerà il testimone del suo impegno sociale?
Spero ai miei figli. Tempo fa mia figlia ha deciso di prendere in affido due bambini. Oggi è una madre adottiva. Certo, questa particolare forma di solidarietà non è arrivata magicamente dall’alto, ci sono stati momenti critici. Ricordo, per esempio, un periodo in cui i miei figli hanno contestato la scelta degli affidi perché risentivano del carico ma è stato proprio superando insieme le difficoltà che siamo riusciti a fare quello scatto d’amore in più verso l’altro.