Case della vita. Via dell’Orticello: Nuove Amicizie-seconda parte

di Maria Letizia Casciani

NUOVE AMICIZIE
(Seconda parte: in mezzo al guado)

Ci fu anche un’altra amicizia che abbe per me una grande importanza. Anche lei era una compagna di classe. Ci volle del tempo, perché mi avvicinassi a lei. Aveva capelli rossi e grandi occhi verdi, connotati da un lieve strabismo. Era l’intellettuale della classe. O meglio: era una ragazza che, per i suoi interessi, spiccava, in un contesto in cui – a metà degli anni Settanta – gli uomini erano ancora lì a dominare e a dire che cosa le ragazze potessero o non potessero fare.
Nel mio ambiente familiare, nella cerchia dei miei amici, le donne erano considerate e trattate come esseri inferiori: ero così abituata a questo stato di cose, che non ci facevo neppure caso. Mi pareva naturale pensarla così: gli uomini, per via di una serie di motivi, non chiari, ma indiscutibili, erano superiori.
Eppure vedevo e ricevevo una conferma quotidiana del fatto che in realtà erano le donne, con il loro lavoro, quotidiano, incessante, instancabile, a trascinare il mondo: mi bastava solo dare un’occhiata alle quattro mura di casa mia: mi bastava seguire una giornata di mia madre.
Stava in piedi e lavorava tutto il giorno, a casa, in campagna, senza fermarsi fino a notte inoltrata; cresceva tre figli, era sempre in movimento, non aveva un attimo di requie e riteneva tutto questo perfettamente naturale. Trovava anche il tempo di preparare il pranzo e la cena, seguendo le esigenze di tutti noi, sedendosi immancabilmente a tavola per ultima.
Mio padre e mio nonno, non appena entravano in casa, si sedevano e, guardando la televisione, senza staccare gli occhi dallo schermo, cominciavano a chiedere ora il pane, ora l’acqua, senza muovere un dito né per prendere da soli quelle cose che mancassero a tavola, né per aiutare la moglie (e la figlia) che si affaccendava intorno ai fornelli e si precipitava subito a portare pane e acqua.
Quei due si permettevano anche di criticare senza pensarci due volte la qualità di quello che avevano nel piatto, senza preoccuparsi del fatto che dietro quella pietanza ci fosse comunque un lungo lavoro e senza che nessuno osasse ribattere alla loro evidente maleducazione.
Dei tre figli solo noi sorelle aiutavamo la mamma ed anche questo era considerato del tutto naturale.
Nella cerchia degli amici che frequentavo le cose non andavano diversamente, nonostante fossimo, per lo più, tutti giovani e dunque potenzialmente aperti al cambiamento del mondo, alle novità.
I fidanzati delle mie amiche – in particolare quelli che con quelle stesse ragazze avevano già fatto l’amore e che si beavano di questo, tronfi come galli da combattimento – andavano dicendo ai quattro venti che ormai per loro era cosa fatta: se le fidanzate li avessero abbandonati, non avrebbero mai più trovato un uomo disposto a prenderle, perché – secondo loro – erano donne “usate” e dunque non riutilizzabili, come accadeva di dire parlando di semplici oggetti.
Più osservavo, ascoltavo, tutto questo e meno mi piaceva.
Non mi sfuggivano l’ingiustizia, la mancanza di rispetto insite in quelle situazioni, la rozzezza di certi comportamenti, di certe osservazioni, degni di veri e propri trogloditi.
Non contestavo ancora, perché ero stata educata nell’idea che le donne dovessero – per qualche motivo – ubbidire e stare in silenzio. Non trovavo giusto ciò che accadeva, ma ero circondata da donne che subivano senza mai ribellarsi e mi sembrava naturale che le cose dovessero andare così, sebbene fossero davvero ingiuste.
In questa mia fase ancora solo riflessiva e fatta di indignazione inespressa, si inserì questa mia nuova amicizia.
Come voleva la moda di quegli anni, la mia amica indossava quasi sempre lunghe gonne a fiori, insieme a degli zoccoli di legno e quelle lunghe collane che piacevano a tutte noi. Era molto brava a cantare: spesso si accompagnava con la chitarra, che suonava con grande scioltezza.
Anche lei, come il mio ragazzo, aveva i capelli rossi e dunque le si era aperta una corsia preferenziale nella mia simpatia. Aveva un grande carisma dentro, si percepiva immediatamente, era evidente già nel suo portamento, ma si chiariva meglio nel suo sguardo, sempre sicuro, senza essere arrogante.
Quando tra noi compagni si affrontava qualche tema politico, soprattutto se aveva a che fare con la questione femminile, lei emergeva sempre, con ragionamenti profondi ed incisivi.
La ammiravo: mi piaceva quella sicurezza interiore, quella pacatezza nei suoi ragionamenti, che non scadevano mai nella banalità.
Era così convinta del suo femminismo, lo aveva assimilato a tal punto che, per una sorta di sovrabbondanza e di osmosi, me lo trasmise, passandomelo come accade con il gioco dell’anello; cominciai anch’io a persuadermi della giustezza di quelle lotte, che in quegli anni coinvolgevano tante donne, che miravano non solo a raggiungere la parità con gli uomini, ma che, attraverso quello slogan “io sono mia”, mi parlavano di aspetti della vita e della personalità femminile fino ad allora per me sconosciuti.
Una donna aveva il diritto di prendersi cura di sé, perché possedeva una dignità intrinseca che la poneva alla pari con l’uomo.
In breve tempo mi trasformai in una attivista dei diritti della donna. Per chi mi stava intorno fu traumatico. Per me, una liberazione.
Nella mia famiglia, negli ambienti che frequentavo fuori dalla scuola, si parlava con grande disprezzo delle “femministe”, equiparate molto spesso a delle svergognate senza pudore, che non sapevano occupare il posto che Dio ed il destino avevano assegnato loro.
Molte volte, nei miei ragionamenti, mi ero ritrovata ad essere zittita dagli altri, quasi sempre uomini, ad essere liquidata con la frase: “Stai zitta, per favore, perché sei una donna e non capisci niente!”.
Per questi incivili, per quanto mi riguardava, la pacchia era davvero finita. Da quel momento in poi si trovarono di fronte una persona agguerrita e capace di usare molto bene le arti dell’oratoria.
Ricordo ancora l’espressione attonita di mio padre, ma anche di mia madre, quando cominciai a fare a tavola osservazioni come: “Perché non ti alzi e non ti prendi da solo il pane? Perché non aiuti mai ad apparecchiare? Perché ti siedi come se fossi un pascià e credi che tutto ti sia dovuto?”
Fu uno scandalo.
Cominciai a rispondere a tono alle osservazioni da maschilista di mio padre, alle sue minacce e ne vennero fuori delle litigate epiche. Si convinse sempre di più che stavo diventando una mezza matta, che far studiare le donne era qualcosa di pericoloso, ma a me non importava.
Fui introdotta da questa nuova amica alle meraviglie del femminismo e non lo abbandonai più. Scoprii così che essere donna non era una iattura della vita, che non si era affatto destinate ad essere maltrattate dagli uomini, ma che la nostra era una bellissima opportunità. Bastava senz’altro pretendere il rispetto e tutto sarebbe stato solo una conseguenza.
Non sapevo ancora che le cose non possono essere governate solo attraverso le convinzioni, per quanto solide, ma, per quanto mi riguardava, in quel momento la mia convinzione fu un ottimo catalizzatore, era la mia forza motrice.
Con questa nuova amica facevo lunghissime chiacchierate, perché, oltre al femminismo, avevamo molte passioni in comune: la musica, la letteratura e – soprattutto – la politica.
Scoprii con lei quanto fosse bello ragionare del futuro e dei cambiamenti che avremmo voluto che avvenissero nel mondo.

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