Cent’anni fa l’uccisione di Antonio Tavani

di Silvio Antonini

TavaniAntonio cover

Sera del 9 luglio 1922. Il giorno dopo sarebbe stato il primo anniversario delle Tre giornate di Viterbo (10-12 luglio 1921), in cui la città, sotto la guida degli Arditi del popolo, era assurta alle cronache nazionali per aver impedito ai fascisti l’ingresso nel centro cittadino, segnando la prima battuta d’arresto, e quindi il primo momento di crisi, del movimento mussoliniano.

All’osteria di Giuseppe De Silvestri, in via Cairoli, ove ora sono i locali del bar – pasticceria Casantini, si trovano Antonio Tavani,venticinquenne, scalpellino, Combattente di guerra, incensurato e Ardito del popolo tra i più attivi, i fratelli Oreste e Paolo Bendia e Giuseppe Mattioli, scalpellino ed Ardito del popolo anch’egli. Su Oreste Bendia e Mattioli, però, girano voci insistenti di un cambiamento di fede politica con avvicinamento al fascismo. Oreste, barbiere, quarantenne, pregiudicato, è noto come anarchico anche di un certo rilievo: in passato aveva infatti redatto articoli per il periodico socialista locale “La Scintilla”. Il fratello Paolo, di due anni più giovane, lo aiuta nella bottega di barbiere; pregiudicato anche lui, è difatti da poco uscito dal Reclusorio per cronici di Soriano nel Cimino.

Mattioli cerca di avvicinare Tavani, che sta per i fatti suoi e gli risponde: “Quante volte te l’ho da dire che non mi devi salutare?”. E all’offerta da bere: “E non ti vergogni di offrire da bere a me? Ci hai pure questo coraggio?”. Dopodiché Tavani inizia a rinfacciare ad Oreste Bendia il voltafaccia di cui tutta la città sarebbe stata a conoscenza, dimostrato dal fatto che egli si facesse vedere spesso in giro con il Segretario del Fascio di Viterbo, Giulio Celestini. Paolo Bendia, che conosce appena Tavani,dà segnali di nervosismo. Mattioli ed Oreste smentiscono il voltafaccia ed in fine avviene una riconciliazione. L’osteria chiude ed i due scendono via Cairoli con al centro Tavani. Paolo Bendia, che si era assentato un attimo, sopraggiunge da dietro e, probabilmente con una forbice da barbiere che era andato a prendere a casa, inizia a sferrare fendenti sulla schiena di Tavani. I presenti sentono gridare “Ti faccio vedere se sono fascista”. Alla fine della discesa, Tavani dice “Mi avete ammazzato” e si accascia sul suolo. I vicini sentono ansimare: si affacciano e vedono un ragazzo che viene dapprima adagiato su un sedia e poi portato in braccio verso l’Ospedale grande ma, in via Valle Piatta, il ferito dice “Mamma mia non ti vedrò mai più”, ed esala il suo ultimo respiro.

I Bendia e Mattioli si dànno alla fuga verso La Quercia, dove incontrano Felice Marzetti, detto Feliciano, completamente ubriaco: un muratore che in precedenza aveva avuto con Tavani una violenta colluttazione, e gli infilano l’arma del delitto nella tasca ma questi, alla vista dei carabinieri, la butta sulla ferrovia. Il maresciallo Flaminio Pastina non corre a recuperarla, per lo stato di agitazione in cui versa la città, e pone i Bendia agli arresti. Come riporteranno infatti le cronache de “L’Ordine nuovo”: “si chiusero tutti gli esercizi e le numerose pattuglie di forza pubblica presero a circolare per evitare le rappresaglie della città martire contro i fascisti. Cade ora appunto l’anniversario dell’assedio di Viterbo, e gli assassini l’hanno commemorato con un assassinio”. Mattioli si dà ad un tentativo di latitanza a Bomarzo ma, due giorni dopo, i Carabinieri di Bagnaia lo arrestano, subito rilasciato.

 

Il Giorno dopo, il Partito nazionale fascista, Sezione di Viterbo, fa affiggere dei manifesti, in “seguito alle dicerie avvenute sul conto dei fratelli Bendia”, smentendo la loro appartenenza al Fascio. Perché questa urgenza? Voci insistenti vollero sin da subito che il delitto Tavani fosse stato commissionato a dei neofiti, come i Bendia ed il Mattioli, per vendicare Luigi Pellizzoni, fascista morto a seguito della colluttazione con l’anarchico Nicola Tomai avvenuta a Vitorchiano l’11 giugno. In particolare per una circostanza, poi smentita da un’indagine tra il personale ospedaliero e dalla Pubblica sicurezza che pure l’aveva messa in giro: il Pellizzoni aveva detto in agonia di esser stato ingiuriato poiché fascista da un infermiere, Antonio Tavani, probabilmente scambiato dai fascisti per  l’omonimo Ardito del popolo. Inoltre, i tre indagati, erano seriamente alle prese con problemi finanziari, cui il locale Fascio stava ampiamente provvedendo.

In base a quanto emerso dal Procedimento penale, non risulterebbe una vera e propria premeditazione. Tuttavia è confermato il giuramento al Fascio nella camera ardente di Pellizzoni da parte di Oreste Bendia, così come l’elargizione di denaro, fatta e promessa, e l’aiuto nel disbrigo delle pratiche come quella, allora impellente, della Polizza di guerra. A fine di un dibattimento lungo e tortuoso, svolto nei primi anni del Regime fascista, saranno condannati Paolo Bendia, con una pena ridotta per, volendo semplificare, infermità mentale, a 9 anni di reclusione, ed il fratello Oreste a 5 anni, 6 mesi e 20 giorni, per “complicità non necessaria”. Il Regime, tra l’altro, avrebbe continuato a considerare e a sorvegliare quest’ultimo come anarchico fino alla fine. Inspiegabile, almeno apparentemente.

Ad ogni modo, c’è una rivendicazione postuma, allusiva, del delitto. Il 16 giugno 1943, “La Goja”, organo dei Guf di Viterbo, pubblica un articolo sulla cerimonia per la traslazione della salma di Pellizzoni da Viterbo a Vitorchiano, scrivendo in fine che la “morte non rimase invendicata”.

 

I funerali di Tavani, confermano anche le cronache di parte avversa, furono tra i più grandi di cui Viterbo avesse memoria. Li documentano gli scatti conservati da Luigi Tavani, fratello di Antonio, ora inseriti nel Fondo Angelo La Bella, consultabile presso l’Archivio di Stato di Viterbo. Vi prese parte una massa di popolo con il vestito buono della festa. Il carro di prima classe con la scorta delle autorità, com’era stato per i funerali del 1921, non c’è più, segno d’un repentino mutamento del clima politico. La bara è portata a spalla dagli Arditi del popolo, a quasi un anno dalla loro messa fuorilegge e forse alla loro ultima sortita pubblica: li si vede con i bastoni di Malacca in pugno ed il distintivo all’occhiello.

La tomba di Tavani diviene subito meta di pellegrinaggio, con ripetuti omaggi floreali da parte della popolazione. Colpisce il testo in epigrafe, il cui autore è con ogni probabilità il marmista repubblicano Duilio Mainella, il Leone di Viterbo, lo stesso che aveva scolpito la lapide. Nel 1924 sul quindicinale fascista “La Rocca” compare un resoconto della traslazione dalla fossa comune di Melito Amorosi, il fascista deceduto, l’unico a Viterbo, a seguito dell’aggressione avvenuta la notte del 28 agosto 1921. Nella cronaca si scrive, facendo una ricostruzione particolare dei trascorsi: “Mentre il Tavani, ardito del popolo, ucciso non per motivi politici, in una rissa fra pregiudicati [Tavani non era pregiudicato, al contrario degli altri – n. d. a] due anni fa, era sepolto nei posti riservati, accanto al glorioso garibaldino Papini [Angelo], con una lapide che suonava offesa non soltanto per i fascisti, ma per gli italiani, Melito Amorosi sacrificato dalla ferocia dei rossi, riposava nel campo comune”. Stando alla memorie di Luigi Tavani, nello stesso anno, la lapide viene tolta dal Comune e qui torna a prendere iniziativa la madre, Elvira Paesani, detta Emma, che Angelo La Bella avrebbe definito “antesignana delle madri di plaza de Mayo” e che durante il processo si era distinta nelle collette per le spese legali e nelle proteste a seguito della fuga di Oreste Bendia dal domicilio coatto di Civitacastellana, dov’era stato posto per decorrenza termini di carcerazione. Scrive Luigi Tavani che Emma “come una tigre aggredì tutti”, ottenendo la solidarietà della popolazione e, in fine, la lapide, portata da Emma in casa dei Tavani, in via S. Andrea, quartiere Pianoscarano, dove rimane fino al passaggio degli Alleati, quando viene rimessa nella sua originale collocazione.

Di Antonio Tavani si è comunque conservato il ricordo nel corso dei decenni, grazie alla memorialistica ed ai contributi di storici e studiosi. Nell’ultima ventina di anni, sulla scorta soprattutto del recupero dell’arditismo popolare, alla sua figura, inquadrata negli accadimenti della sua epoca, sono stati dedicati documentari audiovisivi, spettacoli teatrali e pubblicazioni. La tomba, da una dozzina d’anni a questa parte, è tornata ad essere punto di riferimento della memoria storica, civile e politica, principalmente per l’impegno d’un comitato celebrativo sorto per ricordare i fatti viterbesi del 1921-22, omaggiando i caduti e curandone la manutenzione delle tombe. Tenendo presente che si è a riguardo provveduto a restaurare anche quella del “glorioso garibaldino Papini”, accanto, che aveva l’ovale spezzato, è proprio dinanzi alla lapide di Tavani che termina la ormai tradizionale Marcia commemorativa tenuta per la ricorrenza delle Tre giornate di Viterbo. La ricostruzione storica del delitto si chiude con la lettura corale di quell’epigrafe, ora tornata ben visibile, che aveva mandato i fascisti su tutte le furie: “Tavani antonio/ soldato d’italia alla fronte/ardito del popolo in patria/ combattente della libertà/ cadde/ vigliaccamente/ assassinato/ per mano faziosa il 9 luglio 1922/ a 25 anni./ – / siedi o figlio e compagno/ al congresso dei liberi/ – / la famiglia/ ed il proletariato/ memore”

 

 

 

Per tutti i riferimenti bibliografici e archivistici citati nell’articolo:
Silvio Antonini, Faremo a fassela, Gli Arditi del popolo e l’avvento del Fascismo a Viterbo e nell’Alto Lazio, 1921-1925, Viterbo, Sette città, 2011.

 

 

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