C’era una volta a Viterbo «la stalla, che vien ammirata da tutte le nazioni Straniere e considerata per la più bella d’Italia».
In questi termini una relazione, indirizzata nel 1703 a papa Clemente XI Albani, descriveva le scuderie della Rocca Albornoz.
L’edificio, o meglio quanto è sopravvissuto alle trasformazioni, ai bombardamenti del secondo conflitto mondiale, ai crolli, all’incuria, all’avvio e sospensione dei restauri, sussiste tuttora nell’attuale piazza Sallupara, costruito nel 1505 su progetto di Donato Bramante, quale struttura di servizio della vicina rocca fatta edificare nel 1354 dal cardinale Egidio Albornoz.
Un sopralluogo sommario e dall’esterno, per constatare le attuali condizioni della struttura, suscita desolazione in quanto evidenzia l’impellente necessità di porre rimedio alla situazione nella quale versa a più di dieci anni dall’annuncio degli interventi di recupero. La parziale ricostruzione si affianca a parti lasciate a cielo aperto, le bucature finestrate sono ancora prive di infissi e comunque manchevoli di tamponature provvisorie che impediscano alle acque meteoriche di penetrare all’interno, blocchi di pietra rimangono ammassati a terra e le erbe infestanti stanno riprendendo il sopravvento in alcune aree perimetrali. Quanto basta per vanificare ciò che è stato iniziato.
Ma andiamo con ordine, in primo luogo una sintesi delle principali vicende storiche occorse nel tempo: è necessario conoscere per conservare, nella fattispecie per salvare dal degrado che sopravanza il recupero.
Le fasi architettoniche di costruzione coincisero con il periodo in cui papa Giulio II della Rovere (1443-1513, pontefice dal 1503) stabilì di portare a compimento la trasformazione del fortilizio in residenza pontificia, già avviata da Pio II Piccolomini (1405-1464, pontefice dal 1458). L’intento di adattare il costruito di età medievale alle mutate esigenze e all’aggiornamento in chiave classicheggiante dello stesso si sostanziarono con la realizzazione dei portici e dei loggiati che riconducono la successione di pilastri e archi a tutto sesto, a sostegno delle balconate superiori, a un contesto dichiaratamente antiquariale. Dovette trattarsi di un’operazione citazionista del portato monumentale proprio di alcune vestigia romane assunte come modelli, prime fra tutte le arcate che scandiscono lo sviluppo perimetrale del Teatro di Marcello e dell’Anfiteatro Flavio, solo per citare due riferimenti di eclatante perentorietà in tal senso.
Nell’area limitrofa, sul lato opposto rispetto all’allora Porta di Santa Lucia (attuale Porta Fiorentina), furono costruite anche le scuderie, una struttura a pianta longitudinale, (sessantatré metri di lunghezza) in parte adagiate alla porzione attigua delle mura urbiche, con accesso sul lato breve verso la rocca e con una scala di servizio che connetteva la testata del pianterreno, sul versante che dà sull’attuale piazza San Faustino, con il soprastante fienile. L’edificio era tripartito in altrettante navi parallele e punteggiato da ventiquattro colonne monolitiche in peperino di ordine tuscanico poste a sostegno di volte a crociera. Cinque metri di altezza circa caratterizzavano l’abbrivo svettante degli elementi strutturali elogiati dalle cronache per la loro eleganza. Per rendere più rapido e funzionale il raggiungimento dei due edifici le scuderie erano collegate direttamente alla rocca da un cordone architettonico. Il venir meno dell’uso originario fu attuato con la trasformazione in carcere nel 1839, destinazione che permase fino al 1944 quando a seguito dei bombardamenti crollarono il piano superiore e di seguito anche le volte e le colonne. In realtà il nesso di continuità strutturale era già venuto meno a fine Ottocento con la costruzione di un edificio a impiego militare, l’ex caserma Gilioli, nell’area intermedia tra piazza della Rocca e piazza Sallupara. Rescindendo la connessione tra le due unità, gradualmente si perse anche memoria della reciproca correlazione e della sostanza iconografico-architettonica delle scuderie.
Sono subentrati il degrado e l’abbandono.
Nel 2012 il Comune ha acquistato l’immobile dal Demanio militare, grazie a fondi regionali, e con il coinvolgimento della Fondazione Carivit finalizzato a finanziare il suo recupero. Ambiziosi i propositi.
L’intento era quello di approntare il ripristino, la cui durata era stata quantificata in un anno solare, in tempo utile per le celebrazioni in occasione del quinto centenario della morte di Donato Bramante, avvenuta nel 1514, e per ospitare eventi connessi all’Expo 2015.
Al 4 luglio 2014 risale, infatti, la consegna alla Fondazione Carivit del progetto esecutivo di restauro che si avvaleva del coordinamento scientifico di Simonetta Valtieri, e dell’autorizzazione da parte della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici.
Il 22 novembre 2014 sì è svolta presso il Museo Nazionale Etrusco di Viterbo di Rocca Albornoz la presentazione del progetto alla quale hanno partecipato tra gli altri, Valeria D’Atri – allora direttore del Museo, Leonardo Michelini allora sindaco di Viterbo, Enzo Bentivoglio e Simonetta Valtieri. Cito di seguito uno stralcio dell’articolo pubblicato in quell’occasione da TusciaUp relativo alle fasi esecutive da approntare. «Il progetto prevede la riconfigurazione dello spazio interno delle Scuderie, coperte a volte a crociera su colonne, per la profondità di 7 campate nella zona Sud e la ricostruzione di una porzione del piano superiore, utilizzando la notevole quantità di materiale lapideo derivato dai crolli, per documentare l’altezza e la configurazione dell’edificio bramantesco e avere ulteriori spazi utilizzabili. La zona Nord rimarrà scoperta, come un sito archeologico, consentendo però di percepire dall’interno la profondità complessiva dell’edificio originario lungo 63 metri, ricollocando in sito tutte le sue 24 colonne monolitiche di peperino alte quasi 5 metri, preliminarmente ricomposte tramite anastilosi».
Ad avviso di chi scrive è forse questa seconda parte del piano di recupero a suscitare qualche perplessità, ovvero lasciare scoperta come un sito archeologico la sezione settentrionale, che mostra caratteri non perfettamente coerenti con l’istanza di recuperare, nel suo complesso, l’iconografia cinquecentesca delle scuderie. La sostanza architettonica di queste, ovvero lo sviluppo secondo una cubatura continua ad assetto longitudinale, in ossequio alla sovrapposizione del fienile alle tre navate che la costituivano, verrebbe meno ingenerando una compromissione della percezione e comprensibilità delle cubature originarie. Del resto il crollo aveva interessato, sventrandola, la struttura nella sua interezza restituendo l’immagine drammatica di un unico vano scoperto al livello di calpestio. In tal senso la parziale riedificazione potrebbe risultare un’opzione opinabile in quanto selettiva e non garantista circa la salvaguardia dell’iconografia propria delle scuderie nella loro totalità originaria. Perché ricostruire solo in parte? E per converso, perché non lasciare tutto l’ingombro dell’immobile a cielo aperto? Opzione questa meno praticabile secondo una ratio più garantista del recupero.
Si è tornato a parlare della vicenda nel luglio 2021 – il periodo afferisce alla giunta Arena – in occasione di una conferenza a palazzo dei Priori, nel corso della quale si comunicava che il primo stralcio dei lavori era stato concluso, ma veniva evidenziata la necessità di reperire settecentomila euro per rendere funzionale l’immobile allo scopo di approntare all’interno strutture e servizi operativi con finalità destinate a vantaggio dei giovani. Le scuderie si sarebbero dovute inserire, per altro, in un più ampio e ambizioso progetto di valorizzazione dell’intera area urbana compresa tra Prato Giardino, Porta Fiorentina, piazza della Rocca (con l’interramento del relativo parcheggio), piazza San Faustino fino a piazza della Trinità.
Malgrado tali premesse e ipotetici sviluppi non è stato ancora possibile conseguire l’auspicato restauro delle ex scuderie.
A quando la ripresa dei lavori?
Si attende una risposta da parte degli attanti chiamati in causa da questa vicenda, nonché il superamento delle contingenze ostative, che persistono e allontanano i tempi di raggiungimento dell’obiettivo: restituire alla città un rilevante frammento della sua storia, architettonica e di civiltà, troppo a lungo oggetto di un’ablazione che l’ha sfigurato e quindi devoluto alla dimenticanza.