Chiara Palumbo, il Teatro Sociale e quel “prendersi cura”

Di Laura Pasquini

“La capitale della mente è il cuore”, ha scritto Emily Dickinson e queste poche, intense parole, descrivono efficacemente la persona e il lavoro di Chiara Palumbo, attrice, regista ed operatrice teatrale viterbese, che incontriamo in remoto.

Occhi sorridenti e lunghi capelli color rame, ha quaranta anni, Chiara, ma sembra una ragazzina. Da diversi anni si è avvicinata al mondo della disabilità attraverso uno strumento ‘antico’ di relazione, il Teatro.

Dieci anni fa, un grande salto nella sua carriera artistica, da attrice ad operatrice teatrale nel sociale, trasferendo il suo bagaglio teatrale al servizio dell’inclusione e dell’integrazione.

“Guardo al mio lavoro nel sociale con curiosità e fascino, osservo le fragilità, le differenze, le diversità e le vedo trasformarsi in potenzialità, espressive, emotive e comportamentali. Scopro anche “le mie” fragilità e diventano anch’esse un potenziale espressivo, emotivo e creativo… è un arricchimento reciproco.

Con lei, Paolo Manganiello, poliedrico artista, regista, attore, storico del teatro ed operatore teatrale nel sociale.

Chiara e Paolo condividono da parecchi anni la passione per il Teatro. Nel 2008 creano AstArte, un’associazione che promuove la cultura teatrale e che, specie negli ultimi anni, si impegna a progettare percorsi di formazione più specificamente afferenti al Teatro Sociale, attraverso laboratori teatrali, il più delle volte, finalizzati a spettacoli e performance teatrali, per persone diversamente abili o con disagio mentale, persone con problemi d’integrazione, familiari o di tossicodipendenza.

Una delle ultime performance teatrali curate dalla loro associazione, ha unito Teatro, Integrazione e Solidarietà: Antigone di Sofocle, allestito al Teatro Romano di Ferento, al tramonto, con il pubblico seduto sui gradoni della cavea, uno spettacolo suggestivo voluto e promosso da un’associazione molto attiva nel promuovere eventi benefici, i Lions Club di Viterbo, a sostegno dell’Associazione “Campo delle Rose” Onlus di Viterbo.

La recitazione, il teatro, sono spinti dall’ amore per la parola, come questa viene portata sulle tavole di un palcoscenico da attori speciali?

In realtà, l’elemento fondamentale dei nostri spettacoli non è la parola, ma il Non Detto, il Silenzio, che può essere più significativo della parola. Il nostro non è un “teatro letteratura”, nel senso che, noi non mettiamo in scena il testo. Il testo, la parola, diventano piuttosto un pretesto per raccontare altro. Cosa raccontiamo? Raccontiamo di presenze, di corpi, di sguardi… gli attori si presentano in scena così come sono. Non li mascheriamo. Non li travestiamo. Non li camuffiamo.

E non necessariamente i nostri spettacoli si svolgono in teatro, sul palcoscenico, con gli spettatori comodamente seduti in platea. Alle volte allestiamo le nostre performance nelle piazze, nei giardini, nei cortili cioè in spazi all’aperto oppure in luoghi chiusi ma non destinati solitamente a spettacoli teatrali e gli spettatori sono disposti intorno all’area di rappresentazione, in modo che possano essere più vicini agli attori.

Come inizia il suo percorso artistico nell’ambito del teatro sociale?

L’inizio è stato un progetto di laboratorio teatrale integrato presentato al Dipartimento di Salute Mentale della ASL di Viterbo nel 2009, al termine del quale fu allestito, in occasione della Giornata della Memoria, una performance teatrale ispirata agli eventi narrati da  Primo Levi in “Se questo è un uomo”.

Avevo già avuto insieme a Paolo esperienze di formazione teatrale, specie in ambito scolastico, poi è arrivata questa proposta alla nostra associazione ed abbiamo iniziato la nostra prima esperienza nel terzo sociale.

 Il teatro sociale fa bene alle persone? Ci spieghi perché …

Siamo tutti ‘portatori di diversità’… il nostro modo di fare teatro sociale lavora su questo, sulle differenze, non le nasconde. Il nostro teatro integra, arricchisce, sostiene, rende liberi e non giudica. Fa bene a chi lo fa e a chi lo guarda, è terapeutico ma non nel senso di “curativo”, non curiamo nessuno, ci prediamo cura che è diverso. Non dobbiamo guarire da niente, dobbiamo recuperare ed evidenziare le nostre e le altrui abilità, dobbiamo mostrare le nostre e le altrui disabilità per quelle che sono ed abbattere i pregiudizi. E poi, nel nostro lavoro c’è anche una buona dose di divertimento!!!

Molte persone non sono ancora abituate a vedere spettacoli afferenti il teatro sociale, specie a Viterbo e soprattutto nella provincia, ma è anche vero che, negli ultimi anni, le occasioni di assistere a spettacoli del genere si sono moltiplicate. Sono nate diverse realtà di teatro sociale, differenti ed interessanti, quindi immagino che il pubblico viterbese stia iniziando a comprendere meglio che tipo di esperienza possa essere questa forma teatrale.

Abbiamo avuto esperienze anche nelle carceri o in centri di recupero per le dipendenze… qui non parliamo di disabilità vera e propria, ma si tratta di persone altrettanto ‘fragili’. Per alcuni di loro andare in scena è stata prima di tutto un’opportunità di riscatto, senza giudizio alcuno.

Quello che più mi interessa nel mio lavoro è il rapporto umano, la relazione con l’altro… non mi interessa solo il risultato artistico, è fondamentale il percorso e nel percorso è importantissimo il contatto con l’altro… io voglio poter abbracciare e toccare le persone e per via del Covid questo mi manca tantissimo …

I vostri spettacoli hanno delle caratteristiche particolari, non tradizionali ed hanno spesso degli elementi in comune…

I nostri spettacoli sono abbastanza riconoscibili, hanno ormai un loro stile, ci sono degli aspetti che ritornano, come ad esempio i silenzi, la musica ad alto volume, l’abito nero ed elegante degli attori… ecco riguardo l’abito non ci piace l’idea di mascherare i corpi con sfarzosi e classici costumi teatrali… l’abito nero permette di evidenziare il viso, le mani, i piedi spesso nudi, fa sembrare le persone più vere, più reali, meno artefatte. L’abito elegante poi diventa una sorta di “abito del rito”, un po’ come l’abito della domenica o l’abito delle le grandi occasioni… molte delle persone che vanno in scena difficilmente indosserebbero nel loro quotidiano abiti così eleganti… ci si veste con cura, per prendersi maggior cura di se.

Il Covid ha bloccato ogni attività, quanto questo stop segna i vostri attori  speciali?

Il Covid ha stravolto le vite di tutti, la paura ha portato le persone a diffidare dell’altro, a tenersi lontano… per me poi è stato un passaggio doppiamente difficile perché ho perso mio padre pochi giorni prima del lockdown e purtroppo non ho potuto ricevere gli abbracci che avrei voluto. Per molti dei nostri attori è stato assai difficile dover sopportare l’idea di non vivere più quella socialità a cui erano abituati ma abbiamo imparato e stiamo tuttora imparando un altro linguaggio per stare insieme… whatsapp, zoom, meet… la tecnologia ci è venuta in soccorso!

Qual è il sogno che vorrebbe vedere realizzato per il teatro, che di questi tempi manca di voce?

Secondo me a questa città manca un po’ sentirsi comunità, sarebbe bello sentirsi “tutti di un sentimento” non solo a Santa Rosa … anche a livello teatrale percepisco la mancanza di comunità, di condivisione, le varie realtà teatrali spesso non dialogano tra loro.

Un sogno per il teatro… non sono la prima a dirlo, ma mi piacerebbe che i teatri fossero sempre aperti, tutti i giorni, tutto il giorno, come i bar. Un luogo “per tutti”, un luogo dove poter “fare” o ” vedere” teatro, musica, danza, sempre, ogni giorno. Un luogo dove si possa produrre e promuovere cultura ma dove posso andare anche solo per leggermi un libro o vedere un film, un documentario, dove posso lavorare al computer mentre bevo un caffè. Un luogo di incontro, di condivisione, di integrazione. Un “Teatro dell’Unione”… come dovrebbe veramente essere!

 

Foto di Valeria Tomasulo

 

 

 

 

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