La Roma vince la prima edizione della Conference League 2022: battuto il Feyenoord 1-0.
Ebbene sì. Sono romanista. E non me ne vergogno. Anzi, ne sono orgoglioso. E in un territorio come la Tuscia dove pullulano gli juventini, gli interisti e i milanisti – credetemi – è proprio dura. Perché loro vincono a sfascio: coppe, scudetti e quant’altro. E la Roma? Poco e nulla più.
Avevo 31 anni quando, nel 1983, la Roma di Liedholm, Falcao, Di Bartolomei, Pruzzo e Bruno Conti conquistò il suo secondo tricolore (il primo lo aveva vinto nel 1942 e i maligni andavano in giro a dire che glielo aveva fatto vincere Mussolini). Che soddisfazione! Perché se vinci spesso ti abitui pure all’entusiasmo. Ma se non vinci quasi mai, allora ti esplode tutto dentro e vai in estasi. In quel periodo vivevo a Roma: uno spettacolo indicibile. Ogni strada, ogni balcone, ogni finestra era giallorossa. Al Circo Massimo Antonello Venditti (che in quell’occasione compose “Grazie Roma”) raccolse un milione di persone a cantare e ballare. I laziali erano praticamente spariti dalla città.
Ma l’anno dopo arrivò subito la grande delusione: la finale di Coppa dei Campioni, giocata proprio allo stadio Olimpico. La Roma perse col Liverpool ai rigori. Io stavo in tribuna Monte Mario. Uscii dallo stadio con le lacrime agli occhi.
Poi più niente fino al 2001. Diciott’anni di sole sofferenze (nel frattempo la mia età era arrivata a 49), fino al terzo scudetto marcato Totti, Batistuta, Montella e, soprattutto, mister Fabio Capello. Altro momento di estasi, durato una sola estate. Poi il buio o quasi, addolcito da due Coppe Italia (2007 e 2008) e da una Supercoppa. Magra soddisfazione.
Ma ieri sera finalmente (intanto sono arrivato a 70 anni) è arrivata un’altra gioia: la vittoria in Conference League. Sì certo, già me lo hanno detto in tanti. E’ la coppetta delle scamorze. Di quelli che arrivano settimi in campionato. Ma in una stagione in cui le italiane sono state tutte spazzate via dalle competizioni continentali, se permettete, c’è di che rallegrarsi. Quindi gioisco, godo, mi esalto e spero che stavolta questo sia solo l’inizio di un ciclo che qualche gioia in più possa darla. E che magari mi faccia vedere il quarto tricolore prima di passare a miglior vita.
In tutto questo comunque, c’è una cosa che ancora ho difficolta a capire. Lo sport è sana competizione, ma è anche sano campanile, sano orgoglio delle proprie origini, sano amore per la propria terra. Ai Mondiali o agli Europei avete mai visto un italiano tifare per la Germania o per la Francia e viceversa? Io sono nato a Viterbo, ma i miei genitori erano romani e a Roma e dintorni ho vissuto gran parte della mia vita. Ergo, il legame con quel territorio è diventato subito forte e ha abbracciato anche la fede calcistica (magari potevo malauguratamente diventare laziale…).
E allora mi chiedo: perché un viterbese diventa juventino, o milanista, o interista? La risposta – scusate la provocazione – per me è una sola, dal momento che non esiste alcun legame di campanile: a tanti piace vincere facile. Ed è logico quindi che chi più vince, più tifosi ha. Ma non sa quello che si perde.
In conclusione comunque, oggi la felicità è tanta che mi vien voglia di augurare vittorie a tutti. Perché noi tifosi romanisti – come cantava il grande Lando Fiorini – “c’avemo er core grosso, mezzo giallo e mezzo rosso, ma ‘r tifoso romanista dei tifosi è sempre er più”.
Forza Roma!