Questa vicenda estemporanea, tuttavia, costituisce una preziosa opportunità per sottolineare quanto proposte del genere, non certamente inedite sebbene mai assurte alle aule parlamentari, rappresentino un passo indietro per i diritti delle persone e un grave attacco al principio di non discriminazione.
Secondo il testo del disegno di legge, denominato “Disposizioni per la tutela della lingua italiana, rispetto alle differenze di genere”, poi ritirato ma nondimeno ampiamente diffuso presso tutti gli organi di stampa nell’arco di poche ore, si sarebbe dovuto vietare l’utilizzo di termini come ‘sindaca’, ‘questora’, ‘avvocatessa’ (peraltro la lingua italiana prevede il termine avvocata) e ‘rettrice’ nei documenti pubblici, imponendo l’uso esclusivo delle forme maschili indipendentemente dall’identità di genere della persona che ricopre il ruolo. Questo disegno di legge avrebbe previsto anche sanzioni draconiane, con multe fino a 5.000 euro in caso di mancato adeguamento.
Sin dal principio, questa proposta è apparsa in netto contrasto con il principio di eguaglianza tutelato dalla nostra Costituzione, sia nella sua veste formale che sostanziale. Il linguaggio è uno strumento potente che riflette e influenza la realtà sociale. L’utilizzo delle forme femminili non è un “neologismo improprio”, come sostenuto dalla proposta personale del Senatore della Lega, poi rientrata, ma un riconoscimento dell’esistenza e del valore delle donne che ricoprono ruoli di responsabilità. Queste espressioni non solo sono consentite, ma espressamente previste proprio dalla struttura fondativa della lingua italiana che si pretendeva di volere tutelare sin dal titolo della proposta.
La Conferenza ribadisce che, in questa come in qualsiasi altra occasione pubblica sia stata sollevata la questione, imporre l’uso delle forme maschili significa sostenere implicitamente che i ruoli di responsabilità debbano essere attribuiti prioritariamente a uomini, al punto da considerare ogni differente possibilità come un’‘eccezione‘ trascurabile a questa presunta regola data, di fatto occultata e resa indicibile nella sua corretta attribuzione di genere. Ogni affermazione in questo senso è un tentativo di cancellare le conquiste ottenute con anni di lotta per la parità di genere, ignorando la realtà di una società che evolve e che riconosce l’importanza di un linguaggio rispettoso delle differenze.
Ribadiamo con forza che il principio di non discriminazione passa anche attraverso il linguaggio.
Utilizzare termini come ‘sindaca’, ‘questora’, ‘avvocata’, ‘rettrice’ e ‘medica’ è un atto di giustizia e riconoscimento per tutte le donne che con competenza e dedizione occupano queste posizioni o vi aspirano. In particolare, nel contesto universitario questo disegno di legge sarebbe andato espressamente contro le linee guida del MIUR per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo.
Invitiamo tutte le forze politiche, le istituzioni e la società civile a vigilare su questi tentativi
estemporanei di arretramento culturale, e a continuare a promuovere un linguaggio che rispetti e valorizzi tutte le persone. Difendere l’uso del genere femminile nei titoli professionali e istituzionali non costituisce solo la garanzia di un corretto uso della lingua e della grammatica italiana, ma è una questione di tutela dei diritti civili di tutte e tutti, di giustizia sociale e di rispetto delle differenze, altrimenti trasformate in inaccettabili e obsolescenti disuguaglianze.
Il Consiglio di Presidenza della Conferenza Nazionale degli Organismi di Parità delle Università Italiane (COUNIPAR)