Riproponiamo questo articolo dei primi anni ’60 per ricordare la figura dell’avvocato Severo Bruno, morto all’età di 82 anni la sera dello scorso 30 giugno. Oltre ad aver contribuito attivamente alla fondazione del Pd e a essere stato candidato alla carica di sindaco nel 2004 per la compagine del centro-sinistra, Bruno ha prestato per alcuni anni la sua penna alle pagine de Il Messaggero di Viterbo, da cui è stato estratto questo articolo.
I funerali si svolgeranno presso la chiesa del Murialdo, a Viterbo, lunedì 3 luglio, alle ore 16.00.
Per i vecchietti dell’Ospizio Garibaldi, meglio conosciuto come S. Carluccio di Viterbo, la prima domenica di aprile del ’62 è un giorno come un altro: buio, interminabile, freddo. Anche peggio, se possibile. In un articolo del 5 aprile, il giornalista Severo Bruno descrive un “viaggio” nel vecchio gerontocomio, più vicino a un lager che a una moderna casa di riposo. Leggendo il pezzo, si recepiscono gli olezzi che emanano dalle stanze buie annerite dal tempo, si scoprono i fantasmi degli anziani che si annidano negli angoli bui, che sono rannicchiati sulle brandine, che sono intrisi di una tristezza infinita. Accuditi faticosamente da poche suore. L’amministrazione comunale provvede in gran parte al sostentamento del “cronicario”, ma servirebbero maggiori risorse e una casa più ospitale e dignitosa. Oggi ci sono le case di riposo: più costose, più attrezzate, più funzionali, ma è poi certo che la cura, il rispetto, l’amore per i nostri vecchi, siano quelli di una volta? (L.C.)
I VECCHI DELL’OSPIZIO GARIBALDI
di Severo Bruno
Lo stanzone buio, pieno di fumo, le ultime luci pomeridiane filtrate da una porta a vetri, illuminano dei vecchi seduti su panconi di legno, lungo le pareti. Sono silenziosi, alcuni forse assopiti, fumano, tossiscono. Una stufa in un canto riscalda l’ambiente. Solo pochi si voltano a guardarci, gli altri, meno curiosi, restano assorti. Siamo in una stanza del Ricovero di mendicità “G. Garibaldi”, meglio conosciuto come Ospizio di S. Carluccio; in esso vivono 76 persone tra uomini e donne. Dopo una vita di lavoro, consumata nell’attesa di tempi migliori e resa sopportabile da sempre risorgenti speranze, si trovano oggi sole, stanche e malandate. Sono finite nel luogo aborrito, spauracchio dell’età avanzata, sempre convinte di poterlo evitare e invece sempre più vicino. Ed ora eccoli lì, seduti, a pensare. Fuori è domenica, gente per le strade, movimento, macchine piene di gitanti; nell’ospizio invece sembra che il tempo si sia fermato, che il suo passare non porti più nulla per questa gente che ha finito di sperare dormendo, bisbigliando a tratti tra loro, talvolta giocando, aspettano. Anche loro hanno lavorato costruendo per un domani lontano, hanno contribuito in piccola parte al progresso generale. Ma ora si trovano quasi tutti alla mercè degli altri, incomodo ingombro di una società che ha molta fretta, che non bada a curare gli artefici della sua efficienza. Ricevono stentatamente soltanto una piccola parte di ciò che hanno dato e la dovuta restituzione sembra un regalo. Se il rispetto per le persone anziane indica nell’uomo affinamento dell’animo, l’equità di una società si prova anche nella cura delle persone che non possono più bastare a se stesse. E in questo noi facciamo ben poco per essere considerati giusti. Nel caso che a noi interessa, i vecchi sono viterbesi e Viterbo è la responsabile. Infatti dei 76 ricoverati ben 61 sono a carico del Comune, mentre gli altri sono parte a carico dell’Amministrazione dell’Ospizio, parte versano una modica retta. L’antico fabbricato di proprietà del Comune, è tutto raccolto intorno ad un cortile; presenta un aspetto caratteristico con le sue finestre disposte senza ordine e con quell’aria di palazzotto antico accomodato da poco. Seguendo il cammino silenzioso della superiora che gentilmente ci fa da guida, passiamo per varie stanze che si scoprono all’improvviso, nei punti più imprevedibili; l’aria è a volte fredda, a volte mitigata da qualche stufa che troneggia nella stanza. I ricoverati hanno freddo, sempre. Anche negli ambienti riscaldati li vediamo avvolti nei loro miseri cappotti, le mani in tasca. Così li abbiamo incontrati dappertutto, nei corridoi, per le scale, nel refettorio, così ci sono sembrati anche nei letti, coperti come erano dagli indumenti più vari. Le stufe sono a legna, magari elettriche, si avvertono in qualche modo nell’umidità dell’ambiente. Nelle camerate vediamo molti ammalati: un’unica stufa è nel centro. La superiora intanto ci mostra i letti allineati, rifatti e puliti, ma sono 15 o 20 per stanza, sono troppi per un solo ambiente. Per i corridoi e le scale scendiamo al refettorio a pianterreno. E’ uno stanzone ampio dalle pareti rovinate che contiene lunghe tavole in fila. Vicino si trova la cucina, simile ad un antro tenebroso. Alle pareti, di un nero convinto formatosi in più anni, pentole e utensili vari; in un angolo sconquassata, la cucina vera e propria riluce di fiamme rossastre per gli sportelli che mal si adattano ai propri cardini. La superiora ci avverte che l’aspetto al di fuori può essere considerato buono; è l’interno invece che minaccia di rovinare completamente. Il tetto è stato riparato da qualche tempo, quando si è riconosciuto cioè che l’acqua entrava abbondantemente da vari punti. Andiamo a vedere qualche sala di riposo, passiamo per i corridoi, saliamo scale. Le scale sono dappertutto, si devono far sempre, per andare a mangiare, andare a dormire, a pregare nella linda cappella dell’ospizio. Non sono molto lunghe, né il fabbricato è molto alto, ma diventano interminabili e faticosissime quando chi le deve scendere o salire è avanti con gli anni e, per giunta, malandato. Passando per tanti diversi ambienti notiamo un fondo comune in tutti, un odore strano, che sa di vecchiaia e di trascuratezza, di chiuso. La superiora ci informa che hanno una sola inserviente e che le suore sono in tutto dieci. Mancano anche il giardiniere e il portiere e le loro funzioni sono esercitate da ricoverati volonterosi. Anche l’infermiera notturna mancava fino a poco tempo fa, ora finalmente è stata assunta e viene pagata dal Comune. Entriamo in qualche stanza: gruppetti di vecchi giocano a carte, ci salutano, qualcuno sorride, hanno tutti il cappotto. Apprendiamo che il Comune paga per ogni ricoverato 325 lire al giorno: con questa somma l’Amministrazione deve provvedere al vitto quotidiano. Con quanto eventualmente resti e con le proprie entrate, rappresentate dai proventi derivati da un pezzo di terra e da un fabbricato in piazza della Rocca, l’ospizio deve saper far tutto, compresa la manutenzione, le spese necessarie ecc. Il dott. Berni, commissario prefettizio preposto da oltre un anno all’amministrazione del Ricovero, si stringe nelle spalle e allarga le braccia: il possibile è stato fatto, vuol dire, e per il resto non bastano i mezzi. Egli ci informa inoltre che l’amministrazione provvede all’assegno di 4.000 lire mensili, per le suore, di cinque ricoverati che, secondo le norme della convenzione stipulata con il Comune, sono completamente a suo carico, alle spese generali di esercizio ecc. Aggiunge poi, per paura di non essere stato abbastanza chiaro, che i mezzi sono talmente ristretti da non consentire neppure l’assunzione di qualche inserviente. L’aumento delle quote da parte del Comune, oltre a migliorare la quantità e la qualità del vitto ora non del tutto soddisfacente potrebbe migliorare in qualche modo la situazione, ma sebbene sia stato più volte promesso, ancora non è stato concesso. Continuiamo nella nostra visita. Le camerate delle donne le troviamo al terzo piano, al termine di più scale. Vediamo in un’altra stanza tranquille vecchiette intente a rammendare, avvertiamo di nuovo quell’odore strano, di chiuso e di vecchio. Scendiamo. La visita è finita, fuori gente allegra, divertita nelle strade.
(Documentazione tratta dalla ricerca d’archivio presso la Biblioteca di Viterbo)