Echi di cronaca del secondo dopoguerra: Don Ciccio, Figaro del re

di Luciano Costantini*

Uno spicchio di Napoli a Viterbo. Don Ciccio è un barbiere partenopeo che ha sposato la sorella del parroco di San Faustino, fa vita di quartiere, taglia barba e capelli (ma non a tutti) nel suo “salone” al Corso. Un personaggio che sembra tratto da una commedia di Eduardo Di Filippo, con il suo spirito, la sua religiosità, le sue manie, le sue paure, le sue abitudini, le sue esagerazioni, i suoi colori. Pare di vederlo per le vie della città passeggiare impettito con cappello sulle ventitré e bastoncino. Un simpatico guappo. Il giornalista e storico, Giovanni Mazzaroni – sulla pagina viterbese del Messaggero del 17 settembre ’53 – ne ricorda la figura nel giorno del funerale. Nel delicato e splendido pezzo non c’è tristezza, ma una vena di simpatia che fa sorridere anche dinanzi alla morte.

L’articolo

Le tre campane di S. Faustino hanno suonato a morto anche per lui: Don Ciccio. Don Ciccio era al secolo Francesco Ruggiero, figaro napoletano e parrucchiere di S.A.R. (Sua Altezza Reale) il Principe di Torino. Come fosse capitato a Viterbo non ve lo saprei proprio dire, ma forse la sua venuta coincise con la chiamata alle armi: Don Ciccio, da buon scansafatiche, s’introdusse nella banda reggimentale e si impossessò di una lucente cornetta. Terminata la ferma, pensò bene di accasarsi. Scelse una “brava guagliona” nella sorella di Don Oreste. E cominciarono i giorni felici. Poi gli venne un’idea: mettere su bottega da barbiere al Corso e tanto fece e tanto disse che vi riuscì. Ma volle qualche cosa di grandioso: “cos’e pazze!” come diceva lui. E in quei tempi il “Salone” s’impose. Ma la bottega di Don Ciccio era una bottega tutta speciale: una bottega senza clienti. Perché i clienti se li sceglieva lui: avvocati, magistrati, funzionari di P.S., pezzi grossi insomma. Infatti quando si presentava una faccia sconosciuta, Don Ciccio lo squadrava da capo a piedi e, per non mandarlo al diavolo, lo inviava da altri colleghi, assicurando sul suo onore che sarebbe stato servito meglio. Eppure se c’era un uomo economo, quest’uomo era Don Ciccio: era l’uomo-formica. Del resto la moglie lavorava, la casa era pagata, qualche cosa aveva da parte e la barca andava avanti. Come capitai nella bottega non ve lo saprei dire. Ma, conosciuto il mio nome, si sperticò in inchini ed elogi per la famiglia. Disse che mia nonna aveva preferito, tra tante, sua moglie per fare il corredo alle figlie e che era onorato. Da quel giorno diventai “Don Giovannino bello” e fui ammesso e cercato. Ero allora di professione studente e il paterno genitore molto spesso chiudeva la sua già ristretta borsa. Era un lusso, per esempio, quando potevo comperarmi qualche pacchetto di sigarette di bassa marca e il solo pensiero di entrare dallo “Schenardi” rientrava nel numero dei sogni. La bottega di Don Ciccio era una bottega tutta speciale, forse un po’ vistosa. E lui faceva da Cicerone. Era anzitutto un obbligo la visione della fotografia, con relativo diploma, di S.A.R.; poi si passava all’inchino di fronte al quadro della “Maronna d’o Carmine” e alla sosta, sempre a debita distanza avanti all’armadietto dei profumi. Dapprincipio le cose andarono lisce poi si pensò ad una bonaria “presa”. Don Ciccio aveva un sacrosanto terrore delle mosche: non per lui, ma per gli specchi, per i mobili. Appena ne vedeva una o immaginava di vederne una si agitava. Sì pensò allora che le mosche potevano essere importate. Infatti, di soppiatto, muniti di cartoccetti, introducemmo le fastidiose bestie. Successe un putiferio che si sedò appena quando uno di noi insinuò che le mosche, stante la temperatura dell’ambiente, dovevano aver fatto parecchi nidi. Andò in bestia, si raccomandò alla “Maronna d’o Carmine”, accese il lume e minacciò di mettere i mobili in mezzo alla strada. Poi mangiò la foglia e ci rise anche lui. Si passò al tradimento del lampadario. Quando Don Ciccio era assente la bottega si illuminava misteriosamente a giorno. La bottega, come ho detto, era a nostra completa disposizione, eccettuato però il retrobottega al quale l’accesso era proibitissimo. Poteva entrarci solo lui, tirandosi addietro la portiera. Che ci fosse stato in questo retrobottega nessuno può dirlo. Qualche volta si sentiva un gracchiar di vecchio grammofono a tromba, seguito dal suono della famosa cornetta. Al tempo della “Danza delle libellule”, Don Ciccio si prese una vera e propria cotta per “Gigolette”. Faceva variazioni, svolazzi, gorgheggi. Poi cominciarono i guai. Una bella mattina Don Ciccio, alzando, come al solito gli occhi alla mostra, si accorse che lo stemma era misteriosamente scomparso. Per poco no gli venne un accidente. Corse in Questura, minacciò fulmini e saette e disse che del grave fatto sarebbe stato informato Sua Altezza. Ma lo stemma miracolosamente tornò al suo posto. Fu quindi la volta del ritratto e del diploma: un alto funzionario insinuò che erano scaduti i termini di esposizione al pubblico e che perciò, sotto pena di diffida e di sequestro, il tutto doveva scomparire. Ciccio si precipitò i Questura a riversare le sue atroci pene a Don Vincenzino il Questore. Tutto fu sedato e tutto tornò tranquillo. Don Ciccio era un barbiere sui generis. Spesse volte si concedeva le ferie e chiudeva bottega; scompariva dalla circolazione. Tutti pensavano ad una malattia. Macchè! d’inverno rimaneva accanto al fuoco e, d’estate, si godeva pacificamente il fresco tra i cavoli dell’orto parrocchiale. L’estate era la sua stagione. Una mezz’ora prima dell’inizio dei servizi musicali in piazza, tutto vestito in bianco con bastoncino e ventaglietto, era al primo posto. Avvicinava il maestro e i solisti, li invitava a bottega e gli faceva la barba gratis. Il cappello era un poema: sembrava sempre nuovo. Non se lo levava mai per non sversare la falda e lo deponeva come una corona. Ciccio odiava i profumi, diceva che facevano male alla salute. In un secondo tempo fu scoperto il mistero dell’armadietto: i profumi non c’erano, c’erano solamente le scatole vuote. Altro classico “cappello” se lo prese quando una mattina s’accorse che sopra la serratura era stata inchiodata una lucente lastra di latta. Credette di aver fallito a sua insaputa e filò diritto in Tribunale. Fu un duro colpo per Don Ciccio quando l’ultima volta sfilò la chiave dalla serratura. E il ritratto di Sua Altezza Reale? E il lampadario? E la cornetta? E l’impenetrabile retrobottega? Tutto era crollato…Prese la “Maronna d’o Carmine” sotto il braccio e filò a casa. S’avvilì. Si è spento così. “Si è smorzata la luminella e si sono accesi i quattro ceri”. E la “Maronna d’o Carmine” se lo è portato in paradiso dove non ci sono contatori elettrici e mosche, e dove gli angeli fanno continuo servizio musicale e non si fanno la barba. Quando è passata la bara sotto l’arco di Porta Fiorentina non ho potuto fare a meno di inchinarmi anch’io e di mormorare “Salutamme, Don Ci’!”. (di Giovanni Mazzaroni)

 

Luciano Costantini*Luciano Costantini, giornalista professionista, ha lavorato in qualità di vice capo servizio presso la redazione centrale de Il Messaggero, occupandosi di sindacato ed economia. Rientrato in sede stabile a Viterbo, firma in qualità di direttore editoriale la testata TusciaUp. La sua grande passione per la storia è raccolta in due libri: Il giorno che accecai il Duce, Fuori le donne dal palazzo dei Priori. E’ prossima l’uscita del terzo libro, tutti editi da Sette Città. Echi di cronaca del secondo dopoguerra è una rubrica periodica su questa testata, che racconta aneddoti e fatti di quel periodo storico riportati proprio dal quotidiano romano in cui il giornalista ha vissuto il suo cammino professionale.

Documentazione tratta dalla ricerca d’archivio presso la Biblioteca di Viterbo sul periodo storico

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