
“Se toccano unə toccano tuttə”, manifestazione a Viterbo contro la violenza di genere
Venerdì 11 aprile, alle ore 19.00, appuntamento a Viterbo in piazza San Carluccio, per la manifestazione contro la violenza di genere intitolata “Se toccano unə toccano tuttə”, indetta e organizzata da Non Una Di Meno Viterbo, Erinna, Arcigay Viterbo – Peter Boom, Associazione Universitaria per la Cooperazione e lo Sviluppo, Casa dei Diritti Sociali della Tuscia. A seguire, l’aperitivo “Sorella non sei sola” presso “Al 77”, in via San Pellegrino, 24/24a.
Contro la violenza di genere, per essere liberə
Dall’inizio del 2025 sono state 11 le vittime di femminicidio (e nel complesso 17 le donne uccise, dal primo gennaio al 31 marzo, in base al report del Servizio analisi criminale della direzione centrale della polizia criminale pubblicato sul sito del Viminale), vittime dunque di un crimine d’odio basato su discriminazioni di genere.
Tra loro Sara Campanella e Ilaria Sula, uccise negli ultimi giorni a poche ore di distanza l’una dall’altra. Nomi che chiedono voce.
Non vogliamo più restare in silenzio di fronte alla violenza patriarcale che ci uccide ogni giorno. Come altre realtà femministe e transfemministe che sul territorio italiano si stanno mobilitando proprio in questi giorni, vogliamo farci sentire, fare rumore. “Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima”. Ma vogliamo anche di più, vogliamo vivere una vita
in piena dignità. Vogliamo che l’ultima resti l’ultima.
Scendiamo in piazza per ribadire ancora una volta che il sistema patriarcale nel quale viviamo ci mette in secondo piano, ci svilisce, ci umilia e infine ci uccide. I femminicidi di Sara e Ilaria e tutti quelli che li hanno preceduti non sono una questione privata che riguarda qualche mela marcia. Marcia è la società che produce una mentalità basata sul dominio maschile/machista che vede donne, persone trans*, non binarie e appartenenti a minoranze sempre come inferiori e mancanti, come oggetti di cui si può disporre e di cui ci si può liberare quando non si sottomettono alle volontà dell’oppressore.
Il femminicidio non è un raptus. È il risultato estremo di una cultura patriarcale che penalizza, controlla e discrimina le donne cis e trans*, le persone non binarie e le identità di genere non conformi, sin dall’infanzia.
Queste disuguaglianze si riflettono profondamente nei rapporti: le relazioni di controllo vengono spesso scambiate per forme di amore, ma sono il segnale di un problema più ampio. La gelosia, il possesso, la limitazione della libertà non sono mai atti d’amore.
Tutto ciò fa parte di un sistema che ci toglie libertà e legittima la violenza maschile, a partire dalle battute sessiste, dai vari “dice no, ma in realtà vuole dire sì”, dalla disparità salariale, dalla romanticizzazione anche istituzionale e mediatica della violenza che deresponsabilizza l’aggressore e colpevolizza le vittime, fino all’ immobilità delle istituzioni e delle forze dell’ordine, salvo poi piangere lacrime di coccodrillo all’ennesima morte.
E non vogliamo più sentire gli annunci che mettono l’accento sulle donne vittime, uccise, rapite o poco previdenti che non hanno denunciato. Si parli invece chiaramente di uomini assassini, stupratori, padroni. Le parole plasmano il mondo che ci circonda. Il racconto deve essere capovolto.
Scenderemo in piazza per restituire voce a chi non può più parlare, per Eliza, Ilaria, Sara e tutte le altre, uccise da chi diceva di amarle.
Non possiamo continuare a trattare la violenza come un fatto isolato o come una tragedia ineluttabile, non vogliamo più arrivare a fine anno a fare la conta delle morti. È una realtà sistemica, fondata su un’idea di società che legittima la disparità, una cultura che si trasmette nei gesti, nei silenzi, nelle immagini, nelle leggi che mancano e in quelle che
lasciano tutto com’era.
Non possiamo più accettare che la responsabilità venga individualizzata mentre il sistema resta intatto.
È tempo di chiedere politiche strutturali, non risposte emergenziali. È tempo di sostenere e difendere l’attività politica dei centri antiviolenza, delle case delle donne, dei luoghi in cui abbiamo imparato a leggere la violenza per quella che è: una forma di potere.
Serve un cambiamento profondo, che parta dalle scuole.
Abbiamo bisogno di prevenzione primaria, di un’educazione affettiva e sessuale che insegni il consenso, il rispetto, la libertà di essere, e che smonti gli stereotipi di genere alla radice. Non possiamo più permettere che intere generazioni crescano senza gli strumenti per riconoscere la violenza e per costruire relazioni sane. Il patriarcato non è un ricordo del passato, ma una struttura viva, che si regge su poteri sociali, culturali e politici.
Insieme possiamo abbattere questo sistema misogino e discriminatorio che continua a ricordarci quanto le nostre vite siano precarie. “Sorella io ti credo”!
Per Ilaria, per Sara, per tuttə. Con tutta la rabbia, con tutto il dolore. Ci stiamo organizzando per stringerci e prendere parola. Non possiamo più restare a guardare.