Gabriele Lavia, prima nazionale all’Unione con I Giganti della Montagna

Sabato 23 febbraio ore 21.00 il grande teatro arriva all’Unione a Viterbo.
I GIGANTI DELLA MONTAGNA di Luigi Pirandello
con Federica Di Martino, scene Alessandro Camera costumi Andrea Viotti
musiche Antonio Di Pofi regia Gabriele Lavia
produzione Fondazione Teatro della Toscana in coproduzione con Teatro Stabile di Torino

Anteprima nazionale

La vita è vento, la vita è mare, la vita è fuoco. Non la terra che s’incrosta e assume forma. Ogni forma è la morte.

Di Gabriele Lavia

Cotrone, il mago, dice di essersi fatto “turco” per il “fallimento della poesia della cristianità”…
Ma chi è questo “strano” mago, mezzo vestito da turco, che vive nel “fallimento”, nella “caduta” del mondo, ai margini della vita e ai confini del sogno?
Lo sanno tutti, è lo stesso Luigi Pirandello, agrigentino e nato, per una epidemia di colera da cui fuggire, in un “luogo a parte” chiamato Caos, parola greca che vuol dire “spalancato, disordinato”.
Il suo contrario è Kósmos che vuol dire “ordinato, abbellito”, da cui, appunto, “cosmetico”.
E il Teatro di Pirandello, certo, non è “cosmetico”.
Ma Cotrone è anche qualcosa di più. È colui che vive rifugiato o emarginato nella propria illusione che il Teatro, cioè l’arci-poesia, la poesia originaria, possa essere il Luogo Assoluto. Fuori da ogni contaminazione. Lontano da quei Giganti, da quelle “forze brute”, da quegli uomini (forse noi stessi!) che mettono paura solo a sentirli passare al galoppo!…
Ma il Teatro è “prima di tutto”. È quell’accadimento misterioso che ha trasformato dei “viventi” in una comunità di uomini, proprio quel giorno in cui si sono “rappresentati” e riconosciuti in quella “rappresentazione”. Il Teatro è sempre quella “origine”. È l’origine della coscienza di “essere quello che si è”. In Teatro accade “Coscienza”.
I Giganti sono uomini che hanno dimenticato la coscienza della loro origine. Snaturati dal non voler conoscere se stessi. I servi dei Giganti imitano nei “costumi” di violenza, ignoranza e volgarità i loro padroni, i Giganti. E dunque non possono far altro che continuare a uccidere la “poesia originaria” nata come specchio dell’uomo…uccidere il Teatro. Le ultime parole che Pirandello ha scritto, concludendo il secondo atto (il terzo non lo scriverà mai), le ha messe in bocca al personaggio della seconda donna, Diamante, che ha la responsabilità di dare voce al testamento di Luigi Pirandello: “ho paura… ho paura”.
È andato a dormire, il nostro grande, con queste parole nel cuore, “ho paura… ho paura”, convinto che il giorno dopo avrebbe scritto il terzo atto che aveva tutto pronto nella mente. E invece quella “paura” era la “fine” del suo capolavoro. Ma forse è giusto così.
È giusto che Pirandello non abbia scritto la “morte del Teatro”. Perché il Teatro non potrà mai morire finché ci sarà un uomo che piangerà quando Lear griderà: “T’hanno impiccato povero matto mio…” o Amleto sussurrerà: “il resto è silenzio…” o il cieco Edipo implorerà: “cacciatemi via lontano…”
Il Teatro non morirà. Rinascerà nella “paura”… nella “sconfitta”… nel “dolore”… ma rinascerà.
Come nel mito del suo “primo sorgere”.
Il mito di Dioniso che, poi, è il mito fondante della drammaturgia pirandelliana.
Il mito di Dioniso ci racconta che i Titani, figli della Terra, fortissimi e instancabili lavoratori, invidiosi del dio eternamente fanciullo e amatissimo da tutti gli altri dei, decisero, con la complicità della madre Terra, di ucciderlo.
Così, mentre il dio fanciullo dormiva, i “giganteschi Titani” disposero di nascosto attorno a Dioniso dormiente tanti bei giocattoli (una trottola, dei burattini, un tubo da far ruotare in aria per suonare… ecc.) e alla fine un grande specchio tondo.
Appena sveglio, Dioniso, vedendo tutti quel bei giocattoli cominciò, appunto, a giocare.
Allora i Titani si scagliarono su di lui per sbranarlo.
Dioniso però, agilissimo, scappò e… Chi poteva raggiungerlo?…
Nella fuga il dio fanciullo trovò il grande specchio tondo. Si fermò e guardò “dentro”… e vide il mondo! (Che Dioniso sia lo spirito del mondo?)
I Titani si scagliarono su di lui e Dioniso, per sfuggire loro si trasformò in… “tutto”…
Dioniso, per essere salvo, non si fissava mai in una “forma” perché quella “forma” poteva essere uccisa dai Titani. Ed essere la sua fine.
Ricordate Pirandello che dice (più o meno sempre) “ogni forma è la morte”?
Già, proprio così. Il mito di Dioniso è il mito fondante dell’opera pirandelliana e, allora, nessuna sorpresa se la sua ultima fatica che, per “necessità del destino del teatro” rimase incompiuta, ci racconta la “sua versione” del mito di Dioniso che, in questo caso, prende l’aspetto di un’attrice: Ilse Paulsen.
Un’attrice strana che recita sempre la stessa parte. Si è come fissata a far sempre lo stesso ruolo.
La madre de La favola del figlio cambiato. Ma Dioniso che fine fa nel mito?
Certo, cambia sempre forma, non si fissa in una “forma” ed è per questo che i Titani non riescono a catturarlo e ucciderlo.
Dioniso, come tanti personaggi femminili di Pirandello, “cangia sempre” o anche: “vado così… vado così… tu credi che io sia come tu mi vedi… Io ero fuori di me… non ero più io… sono sempre un’altra…” Dioniso, dunque… “cangiando sempre”… si trasformò in un toro. La madre Terra emise un muggito di vacca in calore. Dioniso-toro, preso dal desiderio, si fermò per un solo istante in quella “forma taurina”. I Titani lo sbranarono.
Ricordate Non si sa come? Romeo Daddi “stordito e fuori di sé” in un giorno d’estate e di sole violento, fa sesso con la moglie del suo più caro amico. Come in un sogno. Nella “realtà del sogno”. E lo stesso vale per la donna sposa dell’amico e amante di Romeo Daddi nella stessa realtà di quel “sogno”. Già… sogno… ma forse no…
Insomma, i Titani fanno a pezzi Dioniso.
Apollo (sguardo della Luce che riunisce nella Luce) prende i pezzi di Dioniso sbranato e, su un piccolo altarino di legno, li “riunisce”.
I pastori (tragos), commossi, cantarono un’Ode piangente dando origine alla tragos-ode. La tragedia. Il teatro che conosciamo in tutto l’Occidente. Pirandello utilizzò sempre questo mito per il suo teatro. Nei Giganti avrebbe voluto svelarlo con la chiarezza della favola, appunto del “mito”. Invece, per destino, il dramma rimase incompiuto.
Nel nostro spettacolo, ancora tutto da fare, cioè nel “teatro della mente del regista”, tutta l’azione dovrebbe accadere dentro un “teatro distrutto”. “Pare vogliano costruirci qualcos’altro”. Uno stadio? Un cinema? (Ma ormai è improbabile)… Un centro commerciale? Forse uffici?…
È qui che si vorrebbe rappresentare I Giganti della Montagna dell’amatissimo Pirandello.
Ma il finale “non scritto” vorrei che fosse una speranza, meglio, una certezza laica, che “la poesia non può morire”. E allora i giovani attori che faranno il ruolo dei Fantocci nella “stanza delle apparizioni” e che sono i “fantocci-personaggi” de La favola del figlio cambiato, alla fine, sul proscenio di assi sconnesse, davanti a un povero sipario strappato, reciteranno tutta (sia pur ridottissima) La favola del figlio cambiato.
Per “fede nel teatro”… che… fateci pace!… non morirà mai… “finché il sole risplenderà sulle sciagure umane”.

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