Per capire quanto siamo fortunati a vivere il nostro territorio dobbiamo leggere il fantastico discorso di Daniela Bruno, Vice Direttrice Generale per gli affari culturali FAI, tenuto in apertura del XXVII Convegno Nazionale dei Delegati e dei Volontari FAI il 24 febbraio al Teatro dell’Unione “Curiamo il paesaggio, coltivandolo” in occasione della presentazione della donazione alla Fondazione di Villa Caviciana a Gradoli (VT).
Lo riportiamo fedelmente perchè merita di essere letto tutto da tutti, per meglio comprendere quanto sia sia importante custodirlo, amarlo e proteggerlo il nostro territorio, per noi che lo stiamo vivendo e per tutti coloro che ci succederanno.
“Quando abbiamo visto per la prima volta il lago di Bolsena provenendo da Orvieto, abbiamo sentito l’irresistibile attrazione di questo magnifico paesaggio. L’amore a prima vista si è trasformato in una maestosa tenuta con vigneti.
Con queste parole Fritz e Monika, detta Mocca, Metzeler, raccontavano di un incontro che avrebbe lasciato il segno, nella loro vita e nel paesaggio. Lui è un avvocato di Düsseldorf, mancato nel 2018; si occupa di diritto fallimentare; segue cause che fanno giurisprudenza in Germania, e così guadagna fama, grandi clienti e la stima degli avversari; dicono i suoi colleghi che non amasse far fallire le aziende: cercava sempre di salvare qualcosa, che potesse rinascere. Lei è una collezionista d’arte contemporanea: capelli d’argento, occhi azzurri e piccoli sigari Sumatra Light tra le dita laccate di rosso scuro; dal suo aspetto e dalla collezione d’arte – decine di opere solo a Villa Caviciana, alcune delle quali donate al FAI insieme alla proprietà –, si intuiscono uno stile colto e una ricerca originale, molto precisa: arte minimalista e concettuale, d’avanguardia, specialmente tedesca.
La loro casa in Germania è aperta agli artisti: ne sostengono alcuni direttamente e finanziano istituzioni culturali, da benefattori discreti, oggi con una Fondazione a loro intitolata. Ma hanno una doppia vita.
Dopo quel primo viaggio nella Tuscia, tornano e ritornano, non solo innamorati dell’Italia come tanti stranieri, ma con un sogno: costruire un’azienda agricola di prodotti biologici di alta qualità.
E così dal 1989 a poco a poco acquistano 144 ettari di colline, campi e boschi, nella provincia di Viterbo, tra i comuni di Grotte di Castro e Gradoli, sulla sponda settentrionale del Lago di Bolsena, davanti all’Isola Bisentina. Il luogo è ideale, con dolci declivi, terreno fertile di origine vulcanica e il clima mite del lago, ma i terreni sono una macchia informe di vegetazione spontanea, abbandonati e incolti. È tutt’altro che una vacanza: realizzare il loro sogno sarà un’impresa. Appena possono, vengono in Italia: Fritz si toglie il doppiopetto blu, indossa il Barbour, e va in campagna. Si fanno aiutare da un luminare tedesco dell’architettura del paesaggio, Bernard Korte.
È un lavoro titanico, finalizzato alla produzione sì, ma che darà vita a un nuovo paesaggio, ancora più bello, perché coltivato, cioè curato.
Piantano 7.000 olivi, uno ogni 6 metri e liberano 400 esemplari centenari dalla morsa dell’edera: 35 ettari di verde d’argento che si staglia sul blu del lago. Disboscano dove la macchia è selvaggia, e piantano corbezzoli che si fondono con pini, castagni, noccioli e querce: i boschi tipici della Tuscia. Creano perfino un laghetto con un canneto e Fritz vorrebbe tanto una tartufaia. Dopo qualche anno, arriva il vigneto, 20 ettari: l’ultima fatica! E poi ci sono campi e pascoli, in origine per le pecore, e c’è un allevamento di maiali di razza ungherese, e le arnie per fare il miele. Il nostro obiettivo – scrivono Fritz e Mokka – è creare una felice simbiosi tra natura e agricoltura: un bel paesaggio, possiamo dire oggi.
La sensibilità artistica di Mokka aggiunge stile alle costruzioni, progettate da un grande architetto tedesco, Wolfgang Döring. L’edificio ha linee pulite, un’architettura minimalista, rigorosa ed essenziale, non priva di guizzi nella lunghissima scala che sale tre piani, e nel felice uso del tufo locale, morbido e poroso, che scalda di giallo senape le facciate. Si entra da una corte assolata, geometrica, e superata una grande sala per le degustazioni, si accede a un prato in declivio, incorniciato dal vigneto, punteggiato di opere d’arte, che sfuma nell’oliveto, con un panorama mozzafiato sul lago e l’Isola Bisentina.
Si vede che è un luogo felice, un paesaggio amato, che dà buoni frutti. L’olio è pluripremiato, e anche il vino si distingue in pochi anni sul mercato italiano e internazionale, in un territorio non famoso per i vini, come la vicina Toscana, ma invece promettente. Per i vini Fritz e Mokka scelgono nomi curiosi, che rievocano celebri incontri tra personaggi della letteratura tedesca e il loro amori italiani: Faustina, l’amante di Goethe nel suo soggiorno romano, Eleonora (Duse), amata nell’immaginazione dal poeta Rilke, o Tadzio il giovane desiderato dal protagonista di Morte a Venezia di Thomas Mann.
Come a dire che il loro vino è frutto di una relazione d’amore: l’amore di Fritz e Mocca per questo territorio, come l’amore per l’Italia di tanti tedeschi prima e dopo di loro.
Il FAI conserverà la memoria dei fondatori di Villa Caviciana, ma anche il loro impegno per la promozione di scambi tra Italia e Germania, che è nello spirito di questo luogo, e nella storia di questo territorio.
Apro una parentesi curiosa, allora, su un celebre tedesco che sfiorò Villa Caviciana, rimanendo impressionato dalla Tuscia, in un viaggio simbolo della passione degli stranieri per l’Italia: Il viaggio in Italia di Johann Wolfgang Goethe. Ho pensato di introdurvi così nella Tuscia, dove siamo, e di accompagnarvi così a Villa Caviciana… a braccetto di Goethe, e – vedrete – di altri tedeschi…
Il suo Grand Tour tra 1786 e 1788 mirava alle città d’arte: Venezia, Firenze, Roma e Napoli, ma da vero viaggiatore Goethe apprezza e descrive, così come le mète, anche il percorso: si ferma lungo la strada e nei paesi, dove scopre meraviglie nascoste dell’arte e della natura, e i costumi locali. Il 24 aprile del 1788 riparte da Roma, per tornare a Weimar: da Porta Flaminia, Piazza del Popolo a Roma, imbocca la Via Flaminia e al Ponte Milvio prende la Via Cassia, che dal III secolo a.C. collegava Roma con Firenze, e che nel Medioevo, proprio (nelle 64 miglia) fino a Bolsena, è ricalcata dalla Via Francigena, l’itinerario che univa Roma a Canterbury attraverso la Francia, e dalla Via Romea Germanica, l’itinerario per i pellegrini nord-europei che univa Roma con il nord della Germania, descritto per la prima volta nel 1253 da un monaco tedesco, Albert di Stade, città alla foce del fiume Elba. Dobbiamo immaginare una strada ancora fatta così, con i basoli romani e con le mansiones (da manère, fermarsi), le stazioni di posta, tipo autogrill, riportate con le miglia tra l’una e l’altra nel diario di un altro viaggiatore tedesco, Johannes Fichard, un giurista di Francoforte chiamato a Roma da Carlo V nel 1536. Ovviamente, infatti, Goethe non andava alla cieca, ma seguiva le guide dei suoi predecessori inglesi, francesi e soprattutto tedeschi. Dal diario di viaggio del 1700 di un altro tedesco, il Langravio Carlo I d’Assia, si deduce che la prima stazione era un’Osteria, a La Storta, poi si passava dal bosco di Baccano (oggi Campagnano Romano), che si diceva infestato dai briganti, poi Monterosi, dove Goethe si ferma a pranzo, Sutri, Capranica e Ronciglione, dove prende il caffè. Lo annota il suo compagno di viaggio, il musicista Philipp Christoph Kayssler, perché lui non illustra questo percorso a parole, ma attraverso una serie di disegni: istantanee di un paesaggio di duecentocinquanta anni fa, impressioni ancor più eloquenti anche per lui, che scrisse:
“L’orecchio è muto,la bocca è sorda, ma l’occhio sente e parla”
Da Ronciglione disegna il Lago di Vico, con il suo piccolo cratere vulcanico e il Monte Venere sullo sfondo. Poi a dieci chilometri da Viterbo, alla Vecchia Posta chiamata “La Montagna di Viterbo”, dove pare si sia fermato anche Leonardo da Vinci, ritrae le cime dei Monti Cimini con un boschetto di castagni, in cui si addentra in un altro disegno. Non gli sarà sfuggita la “Faggeta vetusta” dei Monti Cimini, riconosciuta nel 2017 Patrimonio naturale dell’umanità, con i suoi massi erratici di lava, ma anche i monumentali castagni di Canepina, appena fuori Viterbo.
È un Goethe naturalista, appassionato di geologia e botanica, che appunta i particolari di un paesaggio pre-appenninico di cui dirà “è una curiosa parte di mondo”.
Si ferma a dormire a Viterbo, all’Albergo dell’Aquila Nera, che non c’è più, in Piazza della Rocca, a poche centinaia di metri da qui, e ritrae la fontana commissionata dal cardinale Alessandro Farnese nel 1576 al Vignola, la Rocca Albòrnoz, trecentesca residenza dei papi dopo Avignone, oggi Museo Nazionale Etrusco, e la porta di S. Lucia, sulla Cassia in direzione Firenze. Riparte da qui il 25 aprile: passa da Montefiascone, ma non si ferma. Già conosce la famosa storiella del prelato tedesco morto per una sbornia di moscatello in una taverna indicata dal suo servo con la scritta “est, est, est” – ovvero c’è: il vino buono –. È riportata da tutti i viaggiatori tedeschi dal Cinquecento, ma Goethe l’ha saputa da suo padre, il consigliere imperiale Johann Caspar Goethe, che aveva fatto lo stesso viaggio quarant’anni prima di lui, visitando la basilica romanico-gotica di S. Flaviano sulla strada e il sepolcro di quel prelato; è piuttosto scettico, scrive nel suo diario: “dicono che sia della famiglia de Fugger di Augusta, ma a me poco importa, l’iscrizione funeraria è talmente cancellata che ci vogliono occhi di lince, e comunque il vino non è così eccellente”.
La prossima tappa, passata Montefiascone, è Bolsena. Al km 111 da Roma si ferma per disegnare il panorama del lago, ma il paesaggio è una sintesi artificiosa: la sponda opposta del lago somiglia piuttosto all’Isola Bisentina, e in primo piano ci sono le cosiddette “pietre lanciate”, prismi rocciosi di origine vulcanica, un geosito di grande importanza scientifica. Altri due disegni testimoniano la tappa di Bolsena: l’arrivo in città dalla Cassia, con la Rocca Monaldeschi sullo sfondo e ai suoi piedi il Palazzo Del Drago, e appena fuori, sulla riva, un tempietto rotondo classico, che sappiamo fu iniziato nel Cinquecento e mai terminato, che Goethe deve aver ricostruito con l’immaginazione, vedendone i resti. C’è ancora, infatti, una località che si chiama proprio “Tempietto”, dove nel lago c’è una secca di forma rotonda, come il tempietto, da cui affiorano rocce e pali infissi nel fondale, datati proprio al Cinquecento: chissà che non siano i resti del tempietto finiti sott’acqua… Allora, infatti, e all’epoca di Goethe, il livello del lago era quasi 8 metri sotto l’attuale, e pertanto i resti erano sulla riva. Ci sono altre secche simili lungo le rive del lago, che sono però siti protostorici, palafitte che risalgono al IX secolo a.C. Le chiamano “le aiole”, tra le tante meraviglie del Lago di Bolsena… che all’epoca di Goethe si pensava fosse l’antica Volsinii, una delle 12 città della Lega Etrusca, dov’era il tempio più sacro, al dio Vertumno, distrutta dai Romani nel III secolo. Oggi sappiamo che era in realtà Orvieto, Urbs-Vetus, e che Bolsena era la Volsinii moderna, ricostruita dai Romani, ma Goethe non lo sapeva, e come lui non lo sapeva un altro celeberrimo tedesco di cui a Roma, proprio prima di partire, si era procurato un libro pubblicato da poco: la Storia dell’Arte antica di Winkelmann. Degli Etruschi allora, e ancora oggi, non si sa poi così tanto: quel che si sa, si sa soprattutto dalle tombe, che hanno conservato capolavori della ceramica greca orientale e italica dal VII secolo a.C., nei corredi funebri dei defunti della nobiltà etrusca.
La zona di Villa Caviciana è piena di tombe etrusche scavate nel tufo: due delle necropoli più antiche sono a due passi dalla cantina, e dal vigneto affiorano pezzi di ceramica in quantità… Ecco, tutto questo – sentirsi custodi di un paesaggio culturale, oltre che produttivo, di natura e di storia millenaria – deve aver affascinato incredibilmente Fritz e Mocca Metzeler, che infatti hanno scelto per Villa Caviciana l’immagine di una sfinge etrusca, sintesi decorativa dell’antico passato di un luogo speciale, che aveva incuriosito tanti prima di loro, e molti tedeschi, come Goethe, e in cui hanno voluto portare anche noi, il FAI.
Daniela Bruno,Vice Direttrice Generale per gli affari culturali del FAI