I
#cuntidellanotte ci faranno compagnia in questa caldissima estate.Buona lettura.
È stato l’anno scorso.
L’annus horribilis della mia vita.
Dopo vent’anni di matrimonio, due figli, una famiglia che credevo al riparo dalle tempeste più aspre, e io stessa mi ero sempre rappresentata come una donna soddisfatta e serena, venivo lasciata da mio marito per la mia migliore amica.
Una fine a dir poco squallida e tragicamente banale.
Un accidenti che ritenevo degno per nutrire tuttalpiù le pagine di un racconto per signore annoiate sulla spiaggia, o sdraiate in giardino, nel mese d’agosto, all’ora del primo pomeriggio, quando gli altri se ne stanno sull’amaca a ronfare.
E invece era tutto vero, ed era capitato a me.
Marcello si era innamorato perdutamente di Silvia, e io non mi ero mai accorta di nulla. Amoreggiavano da almeno due anni, e tra un orgasmo e l’altro avevano avuto il tempo di portarmi con loro al cinema (già, ero io oramai l’intrusa, e non lei, che per assurdo risultava essere la “vera” donna di mio marito), o in pizzeria, al club del tennis e pure ai concerti di musica classica.
Chissà se in quei due anni in cui non mi ero accorta dei loro focosi amplessi, si sfioravano le mani con me davanti, o si eccitavano sfregandosi i piedi l’un l’altra, o si guardavano negli occhi, immaginando ciò che avrebbero fatto nel letto piu avanti.
Marcello prima di andare via, un pomeriggio di Aprile, mi aveva portato in casa un cagnolino trovato per strada.
Uno scricciolo nero con due occhioni tenerissimi. Taglia medio-piccola, vivace, ma anche impaurito. Si vedeva già a un primo sguardo che aveva sofferto. Con l’aria pesante che c’era da noi, gli avevo detto di cercare altrove un posto in cui potesse stare. Il nostro Labrador Tommy era morto da poco e non volevo affezionarmi a un altro cane. Come al solito Marcello mi rispose che si sarebbe dato da fare per risolvermi il problema, trovandogli una nuova famiglia, ma poi se ne dimenticò all’istante. Dopo qualche giorno mise dentro un borsone i suoi quattro stracci, giusto quattro, più il suo PC, e sbattendo la porta sparì.
Rimasi a guardare il muro della parete di fronte per qualche ora ma poi, l’amore per i miei figli mi obbligò come per ipnosi a guardare avanti.
Il piccolo intruso a quattro zampe stava sempre vicino a me con lo sguardo languido, aspettando che lo accarezzassi.
E arrivò l’estate.
I miei ragazzi (che allora avevano quindici e diciassette anni) partirono per le vacanze con i loro amici, spinti peraltro dalla sottoscritta a non stare troppo in ansia per la mamma.
Pensavo che avessero diritto a divertirsi, anche se lasciavano una situazione non troppo rilassata fra le quattro mura domestiche. Tuttavia, non volevo che venissero coinvolti nei nostri problemi di adulti in crisi matrimoniale. Mi interessava soltanto che si divertissero, che dimenticassero quegli ultimi mesi di malumori. Semmai erano rogne che dovevamo affrontare io e Marcello.
Ero stata quasi costretta a spingerli di forza sul treno che li avrebbe portati a Rimini. Fino all’ultimo avevano tentennato, specialmente Allegra, la più piccola, che con me ha sempre avuto un rapporto simbiotico.
Tornando indietro, trovai il puffetto nero a quattro zampe che avevo chiamato Zorro, ad aspettarmi con il solito buonumore, anche se intravedevo nel suo sguardo un soffio di malinconia, come se avesse capito per un istinto primordiale che avevamo davanti un lungo e difficile periodo da trascorrere insieme.
Lo tenevo a debita distanza, per un nervosismo che non mi abbandonava, provvedendo a dargli giusto da mangiare e pulendo laddove sporcava per i bisogni quotidiani.
Nemmeno una passeggiata intorno al palazzo. Non ne avevo voglia. Mi appariva tutto tremendamente inutile. Persino lavarmi, prendermi cura di me, e soprattutto vestirmi in maniera decente.
Ero il ricordo in chiaroscuro della donna che ero sempre stata: allegra, disponibile, gentile, affaccendata e piena di interessi rivolti all’esterno, e soprattutto attenta all’abbigliamento, sempre ricercato. Guardavo la TV, leggevo qualche quotidiano, e per quanto riguardava il lavoro, ero felice di aver chiuso il mio studio da avvocato per ferie, prevedendo di riaprire a Settembre.
Ogni tanto mio marito (lo era ancora, almeno sulla carta) mi telefonava per sapere di me – Come stai?, mormorava, chiedendomi cose stupide, rivelatrici del suo disagio. Io rispondevo a monosillabi e poi riattaccavo.
Fu in quel periodo – un crudele agosto arroventato -, che Zorro si ammalò.
Compresi che stava male, perché da un giorno all’altro aveva smesso di saltellarmi intorno e cominciava a non mangiare. Infine, in maniera crescente, prese a vomitare e a soffrire per una diarrea continua. Trovai per miracolo un veterinario disponile al telefono di domenica. Dopo solo due squilli aveva risposto. Non potevo crederci. Nel giro di un’ora io e Zorro eravamo davanti al cancello del suo studio al piano terra. La palazzina era una costruzione modesta, collocata in una zona periferica della città.
Il dottor Valeri (che però mi obbligò subito a dargli del tu, e di chiamarlo per nome, Lucio) disse che si trattava di un problema non grave e mi prescrisse una cura ad hoc.
Uscii da lì felice e rincuorata, sì, proprio felice per il fatto che che Zorro stava bene.
Evviva! Il mio cagnolino non sarebbe morto.
Ma che andavo pensando?
Perché contemplavo la morte di quell’esserino?
Mi accorsi in quelle ore del conforto che mi aveva dato fino a lì.
In fondo avevamo in comune il bisogno di essere amati e accuditi entrambi.
E soprattutto di non sentirci abbandonati.
Ringraziai il cielo di non avergli trovato un’altra famiglia, e soprattutto di aver deciso (anche se all’inizio era stato solo una scelta forzata) di tenerlo con me, specie dopo la fuga di Marcello trasferitosi a casa di Silvia.
Ma i mariti innamorati di un’altra fanno così.
Cancellano all’istante tutto ciò che è stato, appena capiscono che li hai sgamati. Prima no. Prima gli manca il coraggio e preferiscono temporeggiare.
A seguire, un giorno Silvia venne a trovarmi, supplicandomi di credere al suo affetto e al dispiacere di avermi dato un dolore.
Disse proprio così, addolorata di avermi dato un dolore.
Bugiarda!
Zorro, chissà perché, le aveva ringhiato più di una volta, e non voleva saperne di calmarsi. Forse aveva avvertito all’istante puzza di ipocrisia.
Se non ti dispiace legalo da qualche parte, mi aveva suggerito lei, visibilmente spaventata. Le avevo risposto che se voleva continuare a parlare con me, doveva accettare la presenza di Zorro. Tanto, era innocuo, certamente più di qualche altro presente in casa.
Lei si alterò all’istante, mantenendo tuttavia l’atteggiamento impassibile che le apparteneva, e intanto continuava a giustificarsi, raccontandomi di di un dolore che a un certo punto mi aveva fatto venire pure l’orticaria. E Zorro, ancora fermo davanti a lei, puntandola come un pericolo.
In quel momento lo sentivo mio complice, e in me aumentava l’amore per lui. Per quella che era una carezza di fedeltà spiazzante.
Dopo l’estate, e dopo il rientro dei ragazzi a casa, ripresi il solito e ordinario tran tran.
Casa, studio, palestra, casa, qualche volta al cinema con le amiche di una vita, teatro, domeniche in relax, e di nuovo lo stesso giro la settimana successiva. Fino a quando non avevo avuto necessità di tornare dal veterinario. Stavolta però, per il richiamo del vaccino di Zorro non volevo chiamare il vecchio dottor Sandri che aveva curato gli altri miei cani, visto che ad agosto, mentre veleggiava verso la Grecia, non mi aveva degnata nemmeno di una risposta al telefono. Cercai tra i numeri memorizzati sul cellulare il medico che aveva visitato con tanta dolcezza il piccolo Zorro. Lo trovai. Tornai da lui senza difficoltà, conoscendo la strada a memoria. Anche il piccolo puffetto nero sembrava contento.
Lucio mi salutò con fare confidenziale e affettuoso.
Notai in lui nuovi dettagli che avevo trascurato la volta precedente, forse troppo presa dall’ansia per la salute di Zorro.
Era un bell’uomo, forse un po’ trascurato per il mio target, o meglio per le mie consolidate idee preconfezionate sugli uomini.
Si chiamano preconcetti, ma allora non volevo definirli tali, per non darmi delle colpe e sentirmi una stupida.
Decisi che per una volta dovevo andare oltre, e conversammo piacevolmente fino a quando il discorso non entrò in collisione con una domanda ingombrante: sei sposata? Risposi di sì.
Non mi andava di raccontare del mio fallimento.
Ancora mi bruciava.
Mi vennero in mente le facce soddisfatte di Marcello e Silvia che ridevano di me.
Lui invece parlò serenamente della sua separazione, e disse che da quando viveva da solo aveva più tempo per se stesso, come una passeggiata di notte a zonzo per la città, o andare a visitare musei che non aveva mai visto prima, o ancora, scoprire angoli dell’Italia che non conosceva.
Mi parlò della bellezza delle colline toscane e del mare della Sardegna meno turistica, ma anche di come poteva dedicarsi alla cura dei cani abbandonati dato che aveva più tempo a disposizione. Dopo qualche messaggio al cellulare con la scusa di parlare di Zorro, accettai un invito a cena.
Mi sembrava davvero strano uscire con un uomo tanto diverso da Marcello. Quasi sempre in jeans e felpa, o maglietta e giubbotto di pelle. Amante della motocicletta e appassionato di trekking.
A dire il vero era anche il mio opposto, visto che stavo quasi sempre in tailleur pantalone e scarpe con i tacchi.