Chi lo conosce sa che è uno che non le manda a dire. Anzi. Rapido come un Frecciarossa, senza fronzoli, né peli sulla lingua, è sempre lui: il presidente, anche se nei fatti non lo è più da qualche anno. Nome? Piero. Cognome? Camilli. Origine: Grotte di Castro. Professione? Imprenditore. Ma soprattutto appassionato e competente di arte pedatoria. Di calcio, insomma.
Arriva trafelato a piazza della Rocca e si siede al tavolo del bar. “Scusa il ritardo, ma Viterbo è una città impossibile. C’è un traffico pazzesco”. Vabbè. Il tempo è tiranno. Attacchiamo subito:
La Viterbese, alla fine, è riuscita a non ricadere nel baratro, anche se è dovuta passare per i play out. Contento?
“Certo che sono contento. Ci mancherebbe. Qualche volta, quando ho potuto, l’ho pure seguita. Sono andato allo stadio. Però, più di una volta mi sono vergognato a vederla giocare. Ha vinto solo due partite in casa in tutto il campionato. Una squadra così è difficile da seguire. Io non so com’è la situazione della società, ma adesso la rosa andrebbe ricostruita. Quella che c’è è troppo vecchia. E Viterbo meriterebbe di meglio”.
Già. Ma lei a un certo punto, dopo sei anni di successi, ha mollato. Perché lo ha fatto?
“Decisi di lasciare dopo aver capito che Viterbo non è una città dove si può fare calcio a un certo livello. Io mi ci ero appassionato, ci ho speso un bel po’ di soldi per tentare di fare bene, ho coinvolto pure la famiglia, ma sono rimasto sempre da solo”.
Si spieghi meglio.
“Era difficile superare anche difficoltà apparentemente banali. Ad esempio, a causa dei precedenti fallimenti non era possibile avere l’energia elettrica allo stadio. Le strutture sportive erano inesistenti e ancora oggi siamo all’anteguerra. Tant’è che decisi di far allenare la squadra a Grotte di Castro, perché lì c’era un campo in sintetico e un altro in erba. E poi c’erano pure la palestra e la piscina con l’acqua calda. Così la squadra si allenava lì tutte le settimane, anche perché allo stadio della Palazzina non ci si poteva allenare e non c’era una struttura alternativa”.
C’è altro?
“Sì, le giovanili. Bisognava mandarle a giocare a Bagnaia, a Celleno, a Ronciglione, chiedendo di volta in volta il favore ai vari sindaci. Dopo tante insistenze fu realizzato un campo in sintetico al Pilastro, anche se non era abilitato per le partite ufficiali, ma almeno lì ci si poteva allenare”.
Adesso però ripartiamo dall’inizio. Perché nel 2013 decise di prendere la Viterbese?
“Un po’ per amore di Viterbo. Perché io sono viterbese. Ma anche perché non c’era più niente. La società era fallita miseramente e non poteva iscriversi a nessun campionato. Così utilizzai il titolo di una squadra che gravitava su Viterbo (non mi ricordo il nome), organizzai la fusione con la Castrense, che all’epoca giocava in Eccellenza, e iscrissi la squadra col nome di Viterbese Castrense. Così si poté ripartire”.
E a Grotte di Castro furono contenti?
“Certo che no. Anzi, si inc… arrabbiarono un bel po’, perché in fondo gli avevo tolto la squadra del paese”.
Poi però arrivò la grande cavalcata…
“Beh, sì. Vincemmo l’Eccellenza, poi la serie D e lo scudetto dei dilettanti. E in serie C abbiamo fatto sempre campionati di alto livello, riuscendo anche a vincere la Coppa Italia di categoria, battendo addirittura il Monza di Berlusconi e Galliani”.
E allora le ripeto la domanda: perché se n’è andato?
“Troppi problemi da dover risolvere da solo e soprattutto mancanza di strutture”.
E il rapporto coi tifosi com’è stato?
“Tutto sommato buono. Un po’ meno con quelli della curva”.
Perché?
“Perché volevano in un certo senso comandare. Ma con me non attaccò. Mi presero di punta per il nome della squadra. Non volevano Castrense accanto a Viterbese, ma io spiegai loro che lo avevo fatto sia per rispetto ai grottani, sia perché quello era l’unico modo per iscriversi al campionato”.
E allora?
“Giunsero quasi al ricatto, dicendomi che non sarebbero più venuti a vedere la partita. Ma figuriamoci se mi potevano spostare 3-400 biglietti in più o in meno…”.
Lei è stato per svariati anni anche il presidente del Grosseto. Quale giudica l’esperienza migliore?
“Sicuramente quella di Grosseto, dove ho ancora tanti amici. Lo devo dire: a Viterbo sono un po’ invidiosi, soprattutto con quelli che arrivano dalla provincia. Ma sono i territori come Civita Castellana, Corchiano, Orte, Acquapendente che fanno marciare il territorio. A Viterbo c’è solo il terziario. Però i viterbesi un po’ di puzza sotto il naso ce l’hanno”.
Allora, come dice lei, Viterbo è condannata a non avere un calcio di qualità…
“Beh, lo ha dimostrato Enrico Rocchi, quando il calcio era eroico. Gaucci, quando s’è accorto che attorno aveva solo quattro gatti, ha preso e se n’è andato. E con me è successo un po’ lo stesso”.
Quindi è da escludere un suo ritorno?
“Sì, ma io col calcio ho chiuso. Tra l’altro, a 72 anni devo pensare alla mia azienda, che è in un momento particolare, perché sta avvenendo un passaggio generazionale tra me e i miei figli. Mi hanno cercato anche altre società, ma detto no a tutte”.
E il calcio continuerà a seguirlo?
“Certo. Andrò a vedere la Roma. E anche la Viterbese”.
Foto di Massimo Luziatelli
Per leggere i precedenti articoli sulla storia della Viterbese,
1) Viterbese story/1 “C”i risiamo: i sei anni con Piero Camilli
2) Viterbese story/2 “C”i risiamo: l’epopea di Luciano Gaucci
3) Viterbese story/3 “C”i risiamo: Enrico Rocchi, l’uomo della gloria