Il papa, la Pimpaccia e l’albero delle caldarroste. Potrebbe essere l’incipit di una leggenda o di una fiaba d’altri tempi. Ma così non è, perché si tratta di un episodio – più episodi, per la verità – realmente avvenuto intorno alla metà del XVII° secolo e che può essere riproposto in questi giorni dedicati alla festa della regina dei frutti autunnali. Protagonisti sono papa Innocenzo X°, al secolo Giovanni Battista Pamphilj da Roma, la viterbese donna Olimpia Maidalchini, popolarmente conosciuta come la Pimpaccia. Infine un frondoso e gigantesco albero di castagne che, all’epoca dei fatti, vegeta da decine e decine di anni nel bosco del Barco, ai piedi dei Cimini. Al centro del parco una accogliente anche se sobria dimora che donna Olimpia frequenta soprattutto nella stagione estiva. Prenderà il nome di villa Maidalchina, ovviamente. Raccontano le cronache che la signora non possa vantare una abbagliante bellezza – tutt’altro – in compenso il Padreterno l’ha dotata di una intelligenza pronta e vivace. Ne dà prova già da adolescente evitando con un abile stratagemma il convento (accusa il priore di molestie) al quale l’avevano destinata i genitori, e sposa Paolo Nini, facoltoso borghese di Viterbo, però dalla salute assai cagionevole. Tanto è vero che il matrimonio dura appena tre anni: lui abbandona questa terra, lei si rimette in piazza e individua il futuro consorte nel romano Phamphilio Pamphilj con il quale convola in seconde nozze nel 1612. Il nobile Phamphilio ha 27 anni più di donna Olimpia, però si porta dietro una grossa dote: è fratello del futuro papa Innocenzo X°. Inizia uno scambio di doni di famiglia che va avanti per diversi anni. E non sono semplici “presenti”, ma si tratta di regali destinati a restare nelle cronache viterbesi, persino nella storia. La città inaugura, una delle sue porte principali, quella Romana, dedicandola a papa Innocenzo. A ricordo dell’avvenimento un grande stemma in peperino del casato dei Pamphilj, che ne affianca un altro della famiglia di Clemente XI°, Gianfrancesco Albani, che curerà anni più tardi il restauro della porta. Entrambi gli stemmi sono tutt’ora orgogliosamente allineati ai vecchi merli ghibellini che fiancheggiano la statua di santa Rosa. Il pontefice ricambia donando a donna Olimpia un palazzo nei pressi di porta San Pietro, la villa Maidalchina al Barco e ad entrambi i coniugi, cioè fratello e cognata, il principato di San Martino. Lo storico Feliciano Bussi ricorda le numerose “epigrafi laudatorie” incastonate sui muri di strade e palazzi, a perenne testimonianza del passaggio del santo padre. Perché Innocenzo X° frequenta spesso Viterbo: per visitare i parenti certo, ma pure perché qui si trova gran bene. Specialmente quando è ospite di villa Maidalchina al Barco nella quale “deposita curarum orbis mole”. Cioè dove trascorre qualche giorno di riposo lontano dai problemi del mondo. Per rendere più gradevole il soggiorno, donna Olimpia e i gli inservienti, di tanto in tanto, escogitano qualche fantasiosa sorpresa. Un giorno, certamente in ottobre, pensano di ricorrere a quell’antico e frondoso albero, incontrastato re del Barco. Viene raccolta una gran quantità di castagne, arrostita e i gustosi frutti riposti all’interno di altrettanti ricci, poi riattaccati ai rami. Intanto si fa correre la voce: “Il vecchio castagno produce caldarroste”. Alcune guardie svizzere accorrono a verificare e in effetti cominciano a staccare i ricci assortiti con le gustose caldarroste. “Buonissime”. “Siccome – scrive il Bussi – tra gli uomini buoni non mancano mai degli uomini più buoni vi fu tra questi chi stupefatto credeva che tale veramente fosse l’attività di quell’albero”. Che ci credano o no, l’importante è che le castagne siano buone, a portata di mano e già cotte. Papa Innocenzo apprezza la sorpresa pensata dai cognati e i doni offerti dal vecchio castagno, un po’ meno di essere stato momentaneamente abbandonato dalle sue guardie, attirate dalle caldarroste di quell’albero miracoloso. Tutte assolte da un comprensibile peccato di gola per un frutto che è ancora e sempre l’orgoglio dei Cimini.
La foto è di Andrea Cuccello