Lungo tutto quello scrigno inesauribile di tesori che è il territorio italiano, non è raro imbattersi in strutture museali contenute all’interno di palazzi e rocche, già di per sé preziosi e meritevoli di una visita. Bellezza elevata al quadrato, donataci in sorte dalla storia. «E’ un elemento caratteristico italiano, infatti, quello di avere musei dentro ai monumenti: come il Museo Nazionale Etrusco di Viterbo, che è ospitato all’interno di Rocca Albornoz». A raccontarci passato, presente e soprattutto futuro di questa prestigiosa e ambivalente struttura museale viterbese è la direttrice d.ssa Sara De Angelis, al timone da circa tre anni. «Stiamo lavorando tanto per questo museo, e spero che in un paio di anni tutti i nostri progetti si possano concretizzare».
La Rocca domina l’importante piazza viterbese che prende il suo nome, con un piglio marziale ma ingentilito dal tempo e dall’antico intervento di uno dei più grandi artisti italiani del Rinascimento, Donato Bramante. «Alla metà del Trecento, con il trasferimento della sede papale ad Avignone, il cardinale e condottiero spagnolo Egidio Albornoz fu incaricato di riportare con mano ferma l’autorità pontificia sui territori dello Stato della Chiesa», racconta De Angelis. Nel 1364 la Rocca come avamposto militare era già ultimata, ed in grado di ospitare autorità e perfino papi. Ma in epoca rinascimentale l’allora papa Giulio II Della Rovere decise di darle una nuova veste e ne incaricò il Bramante, che già collaborava con lui a Roma. L’illustre architetto progettò il cortile con la fontana centrale, e la pianta attuale con i portici laterali, realizzando un ambiente interno simile ad una scenografia teatrale. «Il successore, Paolo III Farnese, terminò il loggiato superiore e aprì la loggia sull’esterno, a rendere ancora meno severa la struttura e a significare l’apertura, anche simbolica, verso la cittadinanza». Un’apertura che divenne effettiva soltanto dopo il restauro degli ingenti danni causati dai bombardamenti del secondo conflitto mondiale, quando si decise di renderla un edificio pubblico. «Il Museo Nazionale Etrusco fu inaugurato nel 1987, con una mostra sull’architettura etrusca che doveva essere temporanea: visto il successo riscosso, si decise di renderla il nucleo iniziale di un allestimento permanente».
E arriviamo al presente, fatto di numerosi visitatori tra appassionati, esperti, docenti, studiosi, o semplici turisti “lenti” alle prese con un’approfondita conoscenza del territorio. Visitando il Museo si scopre che vi è esposto qualcosa di più dello scontato binomio etruschi-tombe: qui viene rappresentata anche e soprattutto la vita quotidiana di questo antico e nobile popolo. «Questo non è un museo archeologico come si è abituati a vedere: non è un museo di vetrine di vasi. Anzi, i vasi alla fine sono pochi!» continua sorridendo la direttrice. «Perché ospita numerose ricostruzioni, relative agli abitati di Acquarossa e di San Giovenale, che ci fanno riscoprire l’aspetto meno noto degli Etruschi, quello del loro comune abitare. Testimonianze riportate alla luce a partire dagli anni Cinquanta dall’Istituto Svedese di Studi Classici di Roma, con la prestigiosa presenza del re di Svezia Gustavo VI Adolfo, che partecipava personalmente alle campagne di scavo, e che contribuì in maniera determinante all’eco mediatica relativa a questi siti nel mondo». Ed ecco allora che si possono ammirare abitazioni arredate, tetti, lucernari, sistemi decorativi: sentire più vicino e vivo un popolo che pure continua a vivere geneticamente dentro la gente di Tuscia, assorbito e trasformato dalle mescolanze etniche e dal tempo. «Interessantissimo è il mosaico risalente al secondo secolo a.C. e proveniente dalle terme rinvenute nel sito di Musarna, nei dintorni di Viterbo, che è stato qui ricostruito, e che presenta l’unica iscrizione in etrusco su mosaico di pavimento finora nota, a testimoniare il graduale passaggio tra la civiltà etrusca e romana. Di straordinaria importanza poi è il ciclo scultoreo delle Muse, che decorava il fronte scena del teatro romano di Ferento, che viene qui evocato da un suggestivo allestimento». Il Museo ospita, all’ultimo piano, una rappresentazione di tutte le evidenze che provengono dal territorio della Tuscia interna, soprattutto dalle necropoli rupestri che la caratterizzano: pezzi unici, straordinari. «Come la Biga proveniente da Ischia di Castro, la prima biga etrusca rinvenuta intatta in fase di scavo, restaurata ed esposta insieme agli scheletri dei cavalli sacrificati all’interno della sepoltura. È presente poi anche un importante Santuario, la ricostruzione di un luogo di culto rinvenuto a Vetralla, con la statua della dea Demetra e la testa di Persefone: un ambiente suggestivo che permette ai visitatori di emozionarsi così come hanno fatto gli archeologi che lo hanno rinvenuto».
Questo e tanto altro ancora è possibile ammirare e respirare in questo gioiello dalla doppia valenza, che di recente, e anche grazie alla direzione lungimirante e dinamica di Sara De Angelis, è diventato un riferimento di livello per la cultura viterbese. «Un museo in cui sono presenti ricostruzioni di questo tipo è veramente qualcosa di unico, e dobbiamo far capire quanto lo sia, anche attraverso tante attività collaterali che lo vedano protagonista. Ad esempio, già l’anno scorso con la mostra fotografica “Il risveglio degli Etruschi” a cura di Enzo Trifolelli; cicli di conferenze su archeologia e fotografia; mostre di arte contemporanea. E poi ovviamente mostre archeologiche importanti, come “Sfingi, Leoni e Mani d’Argento” di quest’anno, allestita prima a Francoforte e che ho chiesto di portare qui. Un ciclo di incontri su Pasolini, al quale ha partecipato anche Dacia Maraini… e poi tanta musica: la convenzione con l’Accademia degli Svitati, che curano la scuola di musica per i bambini presso di noi, ed organizzano concerti. L’opera lirica con gli studenti dell’Accademia di Santa Cecilia… la gente ha risposto molto bene. Queste continue attività vogliono proprio far sì che questo diventi un punto di riferimento culturale, e sono veramente felice del fatto che ora sono subissata di richieste di utilizzo della sala convegni: ci vedono come un luogo in cui fare cultura a tutto tondo». Ad un moderno museo degli anni Duemila è richiesto di tenere il passo a livello di comunicazione e di interattività, muovendosi con disinvoltura nella sfida ossimorica di promuovere il remoto passato attraverso gli strumenti tecnologici del prossimo futuro. «Sicuramente la prima sfida è quella di renderci più visibili: è un museo importante sia come struttura, sia come contenuto, quasi atipico nella sua esposizione date le tante ricostruzioni, però è poco conosciuto. Ogni piano è stato allestito con un progetto a sé. Deve essere “raccontato” per poter creare un percorso, e deve essere reso sicuramente più interattivo, usufruendo della tecnologia. Cercheremo di puntare su un percorso ricco di effetti visivi e sonori, fornendo una migliore ricostruzione dell’ambiente. Non trascurando il monumento: perché – forse questa è un po’ una pecca – in genere si tende a valorizzare il contenuto, ma non il contenitore. E il nostro “contenitore” è qualcosa di altrettanto bello da vedere e da visitare. Già si stanno svolgendo i lavori di sistemazione del cortile, e c’è il progetto di riaprire le logge interne, e di realizzare una scala e un ascensore nella Torre, al momento non praticabile. Speriamo di iniziare presto i lavori, perché il panorama da lassù è incredibile».
Già direttrice del Museo Archeologico Nazionale di Tuscania, del Museo Archeologico dell’Agro Falisco e Forte Sangallo di Civita Castellana, e del Museo Archeologico di Vulci, Sara De Angelis unisce alle doti professionali e manageriali richieste dal suo ruolo, anche un’indubbia sensibilità femminile, che forse costituisce una marcia in più. «Nel nostro settore c’è una percentuale alta di donne, ma non so se il fatto di esserlo sia un valore aggiunto: molti colleghi uomini hanno altrettante competenze e capacità; dipende da come ci si relaziona con le persone, dalla sensibilità personale, trasversale al genere». Nata a Viterbo, da genitori viterbesi, De Angelis è cresciuta nella periferia romana ed ha compiuto i suoi studi a La Sapienza. «Conosco bene il territorio e soprattutto la mentalità viterbese. A Viterbo si fa tanto ma in modo “sparso”: anche quando si riesce a fare rete, si fa a livello alto, ma a livelli più bassi non si riesce a fare un calendario condiviso di iniziative. È una città splendida con potenzialità altissime, che tiene molto a se stessa, e che forse proprio per questo tende a volte a rimanere un po’ ferma. Ma c’è energia, c’è amore per tutto il territorio: io raramente ho a che fare con viterbesi che non conoscono tutto il territorio che hanno intorno. Lo frequentano, lo amano, se lo godono pienamente, e questo va reso un valore».