“Laura racconta”: Il sogno

di Laura Sega Marchesini*

IL SOGNO

Quasi tutte le sere, quando l’imbrunire iniziava a concedere i colori rossastri al cielo, Vincenzino saliva le scale di quella minuscola casa rialzata scavata nel grigiore umido del tufo. Eppure, quel tratto mesto e muffo si faceva nobile passaggio ai suoi occhi spalancati e ingenui: era l’antro amorevole e sicuro da cui scorgere un “domani”. Ad aspettarlo, acquiescente e materna c’era Checchina, una giovane sposa e mamma del piccolo Luchetto, un fagottino rosa tremolante di non più di dieci chilogrammi.
Da quando la madre di Vincenzino era morta, il padre, rozzo bracciante maremmano, trovatosi improvvisamente non adatto e solo, s’era accompagnato a un’altra donna che ben presto esercitò la malignità propria delle peggiori matrigne. Le crude angherie spinsero il povero Vincenzino a rinchiudersi in un dolore compresso che riusciva a sciogliere solo nell’affetto di quella modesta e fresca famiglia.
Quel pomeriggio, mentre Checchina dimenava i polsi sulla sfoglia paglierina delle fettuccine, Vincenzino, paziente guardiano del sugo, mescolava con metodo affinché quello non raggrumasse intorno al rame della pignatta. Questa era appoggiata sull’ultimo cerchio della ghisa nerastra della stufa che sprigionava un odore acre di fuliggine e pomodoro. Tutto a un tratto si alienò, trascinato nella tenebra della sua solitudine. Vincenzino, nell’assenza vitale del suo sguardo torse di lato il busto reclamando sommessamente su di sé attenzione, e senza che i suoi occhi spenti seguissero quel gesto inconsapevole disse: «Checchì, la matrigna è tanto cattiva con me. Voglio andare dalla mamma.» Il suono ovattato e ramingo di quelle parole si fece eco assordante. L’aria ormai rarefatta si tagliò netta nell’insostenibile rumore del silenzio impossessatosi di tutto. Checchina, impietrita, rifugiò in un’apparente pacatezza il suo spaventato stupore. Il sugo abbandonato a se stesso si animò minaccioso nel ritmo impreciso e denso del suo bollore. Il suo cuore, rallentando, si unì in un tetro contrappunto allo spasmo ansimante e liquido di quel tegame infuocato. Nell’imbarazzo di un abborracciato disimpegno ingoiò quell’aria e la spinse fino allo stomaco tanto che le fu difficile rifiatare per intervenire decisa e perentoria: «Ma si può sapere che dici? Non dire mai più una cosa simile!» Smorzò così, in uno sgrido impulsivo, ingenuo e un po’ sguaiato, quello che fu uno strappo violento e strano alla normalità di quel pomeriggio. Vincenzino si raccolse dentro le spalle strette e, salutando Checchina, disse: «Ci vediamo domani!» L’indomani Checchina non si svegliò riposata. Tentò un accenno complice al marito nella ricerca miserevole di tacita comprensione, ma con lo sguardo allusivo e colpevole di chi non riesce a trattenere il peso di una minaccia incombente. Rimase così, rappresa e vittima della sua stessa inespressa angoscia. Come tutti i sabati, Vincenzino non andava a scuola e così si presentò presto a casa di Checchina che dopo avergli preparato la colazione gli chiese di tenere un po’ in braccio Luchetto. Il ragazzo, orgoglioso, baloccava con insolita disinvoltura il piccolo il quale rispondeva agitandosi vivace e allegro tra le sue braccia. Nel gioco di quei movimenti, imprevedibilmente, il bambino gli fuggì dalla presa e prima che Vincenzino realizzasse l’immediatezza del pericolo, Luchetto era già caduto a terra esplodendo in un pianto accorato. Checchina corse a raccogliere Luchetto che già rideva e, portandoselo al petto, non riuscì a trattenere un secco e violento rimprovero per Vincenzino. Il primigenio istinto materno prevalse sulla sua solita indulgenza tanto che il ragazzo, colpevolizzato, si chiuse nel mutismo e senza salutare se ne andò.
Il giorno abbandonava pian piano il suo chiarore e Checchina sentiva a poco a poco affiorare l’oppressione di un senso di colpa. Invocò il perdono di qualche stella irrevocabile che invece si dissolse nel blu severo della notte. Chiusi finalmente gli occhi, Checchina si addormentò e sognò, si agitò, contenuta e impotente prigioniera del suo letto teatro di immagini inverosimili e irreali. Al risveglio si spogliò della cautela che in precedenza le impedì di liberarsi e alleggerirsi di quell’ansia e riferì al marito di aver fatto un sogno tremendo. Lui, accarezzandole i capelli, mitigò il suo volto preoccupato impedendole, di fatto, di raccontarlo. Era domenica e quando fu quasi l’ora di pranzo Checchina notò che Vincenzino non era arrivato con la sua solita puntualità. Il marito, da poco rientrato dalle riposanti chiacchiere domenicali di piazza con gli amici di sempre, avvicinandosi a Checchina che apparecchiava la tavola, le disse: «Dicono che Vincenzino non si trova. Da ieri sera nessuno lo ha più visto.» Per la seconda volta quella stanza divenne testimone narrante di pensieri angosciosi ormai dissolti nel suono malinconico di un inconfessato presagio. Checchina raccolse gli occhi e le mani, respirò e dopo una breve pausa disse: «Vincenzino è morto. È salito sulla quercia giù a Musignano. Gli ho detto di scendere, ma lui ha continuato fino su in cima. Il ramo si è spezzato e lui è caduto sui sassi dentro il ruscello che arriva alla cartiera. L’ha trascinato la corrente fin laggiù. L’ho sognato stanotte.» L’indomani, si seppe che Vincenzino fu trovato lì, dove terminava il corso d’acqua, alla cartiera. Senza vita. A Musignano c’era un ramo spezzato, sotto la quercia.

(prossimo appuntamento il 12 novembre)

L’Autrice

Laura Sega Marchesini, laureata in Economia è scrittrice di racconti, saggi e articoli su riviste cartacee e quotidiani online. E’ cantante, cultrice di musica e tiene concerti come voce solista.

 

 

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