Le case della vita. La casa di via Romagnosi , le cose non vanno come vogliono loro

di Maria Letizia Casciani

“PERCHE’ NELLA VITA LE COSE, A VOLTE, VANNO COME VOGLIONO LORO”

Una mattina di settembre, a metà settembre – un sabato mattina – io e l’Uomo coi baffi ci sposammo.
Mi sentivo molto elegante, quel giorno: poche settimane prima io e mia madre avevamo fatto una piccola incursione nella Capitale, avevamo varcato insieme la soglia di un negozio di Valentino e lì avevo scelto un completo davvero incantevole.
Quella mattina fui costretta a lasciare i pantaloni leggermente slacciati, perché il mio girovita cominciava ad allargarsi, ma la lunga camicia abbinata non lasciava notare nulla.
Eravamo tutti piuttosto rilassati e le incertezze che avevano un po’ offuscato le settimane precedenti, sembravano essersi dileguate.
Come tutte le cerimonie civili fu molto veloce, ci fu poco spazio per le foto, perché l’imperativo, per noi due, era quello di tenersi lontani dai comportamenti troppo legati alla tradizione. Volevamo entrambi che tutto fosse semplice ed austero, senza tanti fronzoli. Il pranzo fu piacevole e pieno di calore. Ci divertimmo molto e mangiammo benissimo.
Tornammo a casa molto stanchi, nonostante la semplicità della cerimonia in sé e della giornata, in generale.
Il giorno dopo saremmo partiti per il viaggio di nozze: andammo a dormire molto presto. Avremmo raggiunto alcuni amici che vivevano in una città del Nord e che ci avrebbero ospitato per un paio di settimane. Partimmo in macchina, fu un viaggio molto lungo e forse anche faticoso.
I nostri amici ci accolsero con gioia, come sempre era accaduto, anche nelle precedenti occasioni.
Avevano avuto da poco un bambino e quella fu per me l’occasione di osservare dal vivo molti dei gesti, delle cure che, di lì a poco, mi avrebbero coinvolta con il mio.
Organizzammo delle piccole gite nei dintorni.
Durante una di quelle giornate di svago, verso la fine della vacanza, mi accorsi di provare delle piccole fitte al centro dell’addome, ma non diedi loro troppo peso. Non ne parlai con nessuno. Sarebbero di certo passate, mi dissi. Forse era solo un po’ di stanchezza.
Un paio di giorni dopo, però, trovai delle macchioline di sangue e mi spaventai moltissimo. Tutti si spaventarono moltissimo.
Ripartimmo subito; il ginecologo voleva vederci chiaro. Fu un viaggio di ritorno carico di silenzio. Arrivati a casa, corremmo subito in ospedale.
A quel punto gli eventi divennero una specie di valanga. Ricovero immediato. Analisi, visite, per un paio di giorni. Riposo assoluto. Ansia crescente per ciò che sarebbe potuto accadere.
Di quelle giornate ho un ricordo, netto, preciso ma, nello stesso tempo, come immerso nella nebbia.
Un pomeriggio, un sabato pomeriggio, mentre ero sdraiata sul letto, mi mandarono a chiamare per un’ecografia.
Percorsi quel lungo corridoio con un passo incerto, sentendomi tremare le gambe; entrai nella stanza.
Per prima cosa vidi il volto rassicurante del mio ginecologo e poi quello di un altro medico. Mi sdraiai sul lettino delle visite; mi misero uno strano gel sulla pancia, cominciarono ad armeggiare davanti ad un piccolo schermo in bianco e nero.
Discussero a lungo tra loro, commentarono, indicarono un punto, si soffermarono ad osservarlo, continuarono a discutere. Alla fine mi guardarono ed uno di loro disse: “Vede, signora, qui il cuore non batte più. Il bambino è andato.”
Capita nella vita, quasi sempre in un contesto particolarmente serio, di sentire una frase, detta da qualcuno al nostro indirizzo, e di non riuscire, sicuramente in base ad un meccanismo di difesa, a capire il suo significato, quasi che non fosse rivolta a noi, ma a qualcun altro.
Per qualche secondo continuai a far girare dentro di me quelle parole senza comprenderne il senso.
Che cosa diavolo voleva dire quel medico con quelle parole: “Il bambino è andato”? “Dove” era andato esattamente? Credo di averli guardati con aria incredula, se non inebetita.
Non si resero conto del mio stato mentale e cominciarono ad addentrarsi in un territorio linguistico in quel momento per me incomprensibile: parlavano a me, ma io stentavo ancora una volta a capire il senso di ciò che ascoltavo; sentii parole come “intervento”, “leggera anestesia”o frasi come “tra qualche mese potrà riprovare”, ma non riuscivo a creare il collegamento tra la mia persona e l’orrore di quello che quei termini potevano realmente significare e che mi rifiutavo di accettare.
Poi, calò su di me la verità. “Il bambino era andato”.
Eravamo a ottobre, in un caldissimo sabato di ottobre, me ne stavo sdraiata su quel lettino e lui – il mio bambino – non c’era più. Se n’era andato senza avvisarmi. Lasciandomi lì, da sola.

Foto: Ritratto di Dora Maar pittura di Pablo Picasso

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