Le Case della Vita.Via dell’Orticello, come un’anguilla in un secchio

di Maria Letizia Casciani

L’ultimo anno di liceo fu un bel calvario.
Mi ritrovai a dibattermi in modo insensato, dentro situazioni senza capo né coda, come fa un’anguilla che si agita dentro un secchio, per tentare di uscirne, vanamente, senza sapere che sta sprecando tutte le energie utili a sopravvivere, di certo, le ultime che le rimangono.
Mi ritrovai nelle stesse condizioni di coloro che – sulle sponde di un fiume in piena – invece di allontanarsi per mettersi al sicuro, abbandonano ogni appiglio stabile, entrano in acqua e si lasciano trasportare dalla corrente, sapendo bene che non potranno più guadagnare la riva e quindi saranno travolti.
Tuttavia il desiderio di andare è più forte di loro e, nonostante la paura, lasciano la presa e si abbandonano, senza pensare troppo alle conseguenze.
Come capita ad ogni adolescente, infatti, stavo cambiando, ma non riuscivo a governare ciò che mi accadeva, forse perché non vedevo nessuno in grado di aiutarmi, o, più probabilmente, perché non permettevo a nessuno di darmi una mano.
Quali potessero essere i motivi della mia chiusura, il risultato fu lo stesso: rabbia, senso di frustrazione e ribellismo sparati alla cieca. Senza ottenere un granché.
Mi agitavo, avrei voluto cambiare il mondo intero, senza riuscire a capire che il primo mondo da migliorare sarebbe stato il mio. Molto più spesso, mi abbandonavo allo sconforto; scuotevo tutto, agitavo tutto, ma non riuscivo ad avanzare di un solo millimetro. L’unica cosa che in quel momento mi riuscì di ottenere, fu di demolire tutto quello che avevo costruito fino a quel momento.
Dapprima entrai in crisi con il mio ragazzo dai capelli rossi.
Stavamo insieme da quasi cinque anni. Non potevo imputargli colpe particolari, tuttavia qualcosa tra noi era cambiato.
Io, ero cambiata.
Sentivo il bisogno di vivere altro. Nessuno mi aveva spiegato che è normale, anzi, che è fisiologico, a diciotto anni, cambiare idea sull’amore, volere fare esperienze, cercare altro. Nessuno mi aveva spiegato che le cose vanno spesso così e che non c’è bisogno di sentirsi in colpa se si cambia idea, specie se si tratta di una storia d’amore. Non sapevo decifrare quell’alfabeto, la sua scrittura, dato che quasi nessuno mi aveva insegnato a farlo.
I sensi di colpa mi schiacciavano ed oscillavo perennemente tra tensioni opposte: cambiare le cose che mi circondavano, rivoluzionando tutto, sfidando il giudizio comune, oppure cercare di essere una brava ragazza, quella che fa tutto quello che gli altri si aspettano da lei, ma ha il vuoto dentro, perché niente, o poco, di quello che fa le appartiene davvero.
Sapevo di non volere più stare insieme al mio ragazzo dai capelli rossi, ma avevo il terrore di fargli del male: non sapevo come dirgli la verità senza ferire i suoi sentimenti. Quindi, mi limitavo a stare male, senza esprimere apertamente il mio disagio.
Chi è abituato ad essere ferito, trema all’idea di doverlo fare a sua volta, teme di prendersi questa responsabilità, perché conosce bene quel territorio, lo ha esplorato a lungo e ne conosce ogni millimetro, sa cosa si prova ad essere vulnerabili e non vorrebbe infliggere ad altri quello stato d’animo.
Sentivo come intollerabile il peso delle nostre diversità, che mi parevano inconciliabili, ma esitavo a muovermi. Soffrivo molto per questa situazione. La mia testa, però, era cambiata, il mio modo di leggere il mondo era cambiato. Avevo bisogno di circondarmi di persone diverse, più simili a me. Questa era la cosa che sentivo nel cuore. Ero immobile sulla sponda di quel fiume, guardavo l’acqua che scorreva veloce, ero indecisa sul da farsi. Poi decisi velocemente e mi buttai.
Volevo lasciarlo e lo lasciai, quasi senza dargli spiegazioni. Pur di non darne, non ne diedi affatto.
Entrai in crisi anche con il gruppo storico degli amici del paese. Sapevo già che non avrebbero approvato la mia decisione di troncare quella storia e, prima che mi tagliassero fuori, smisi io di frequentarli.
Mi convinsi che non ci potesse essere alcuna forma di mediazione tra me e quel mondo che mi pareva, ormai, terribilmente chiuso, troppo diverso da me.
Il paese stesso mi sembrava gravato da una mentalità che non riuscivo più a tollerare. Avrei voluto fuggire via da lì.
In brevissimo tempo, quindi, riuscii a rompere i ponti con tutti.
In famiglia mi consideravano una pazza, capace solo di generare scandali. Mi sentivo isolata e provavo rabbia, perché nessuno mi capiva e approvava le mie scelte.
Poco tempo prima si era creata, all’improvviso, una situazione paradossale: dopo anni di divieti, di rimproveri, di minacce, la mia famiglia – mia madre, in particolare – si era rassegnata a quel mio legame: io ed il ragazzo dai capelli rossi eravamo finalmente liberi di vederci in qualsiasi momento e lui era stato addirittura ricevuto a casa.
Entrata, dopo anni di litigi e musi lunghi, nel gruppo della “fidanzate a casa”, ne uscii subito alla velocità della luce, perché mi resi conto che non faceva al caso mio, che non era più quello che volevo.
Ma cosa volevo?
In me coesistevano due atteggiamenti contrapposti: la voglia di cambiamento e l’incapacità – come per una forma di accidia – di mettere in moto il benché minimo sforzo per ottenerlo. Mi agitavo nel secchio, come un’anguilla, dunque: agitavo le acque, creavo rumore, ma restavo sempre lì.
Presi una cotta per uno della scuola che nemmeno mi vedeva.
Un suicidio annunciato, perché sapevo che lui aveva avuto da poco una storia d’amore difficile, che ancora lo tormentava. Diventai la sua confidente, sperando – chissà – di entrare nel suo cuore.
Non fu così e anche stare a scuola, vicino a lui, divenne un tormento. Non c’era un solo luogo, nel mio orizzonte, dove mi riuscisse di stare bene.
Tutto si sbriciolava.
Il mio rendimento a scuola crollò di botto, semplicemente perché di botto smisi di studiare. La mia capacità di concentrarmi era svanita, annullata, dispersa. Ero sempre stata abbastanza brava, avevo comunque dei bei voti, ma arrivai alla prova della maturità totalmente svuotata.
Non aprii libro: lo scritto di greco fu un disastro, l’orale, una catastrofe.
Al colloquio mi sedetti davanti alla commissione e non aprii bocca. Ricordo ancora che mi chiesero uno dei miei argomenti preferiti, le Operette Morali di Leopardi, ma non un suono uscì dalla mia bocca. Per poco non fui bocciata. Mi salvò la mia storia scolastica, piuttosto buona, almeno fino ad allora.
Da quel giorno – e per molti anni – la parola “esame” – da sola – sarebbe stata in grado di generare un robusto stato di ansia nella mia testa.

COMMENTA SU FACEBOOK

CONDIVIDI