Questa è la storia di un ponte fatto di donne, che resiste al tempo e alle rivoluzioni. Donne forti, capaci di adattarsi e di resistere, sempre guidate dalle certezze del cuore. Una spalla del ponte è in Iran, l’altra scavalca il mare e arriva nella Tuscia. Il nostro racconto parte da San Martino al Cimino, dove negli anni Sessanta una ragazza, Mirella, prende tutti i giorni l’autobus per frequentare ragioneria al Paolo Savi di Viterbo. Sull’autobus incontra sempre un giovane, magro e bruno, che invece studia all’Istituto per Geometri. I due ragazzi si conoscono, fanno amicizia, si innamorano. Non sanno che stanno per dare vita ad una saga familiare, la storia della famiglia di Mariam Josephine Behboudi, una dolce signora italo-iraniana, che ha deciso di raccontarla, e di raccontarsi. «Ma prima di me, a parlare della mia famiglia è stata la mia mamma, Mirella Morucci, nel libro “Una vita qualunque», puntualizza Mariam, fotografa per passione, che vive a Viterbo dal 1989. Scopriremo che la vita di Mirella, e quella di Mariam, non sono state esattamente vite qualunque. O forse sì, perché sono state semplicemente vite di persone in balia della storia e del destino, proprio come quelle di tutti noi.
Il racconto di Mariam parte da uno scorcio viterbese al quale è particolarmente affezionata, e che ama ritrarre con la sua macchina fotografica. «Io adoro Viterbo. Sono capace di fotografare mille volte lo stesso angolo. Ma quello che preferisco è piazza san Lorenzo e il Palazzo Papale, perché è lì che la storia della mia famiglia ha avuto inizio. Lì si sono sposati i miei genitori. Ogni volta che vedo questo scorcio mi emoziono. Rivedo i miei appena sposati e felici, che salgono in macchina sorridenti con lo sfondo della loggia». Quel giovane magro e occhialuto del nostro racconto, Ali Behboudi, era venuto a studiare in Italia, quando il regime dello Scià di Persia Reza Pahlavi mandava giovani iraniani promettenti a farsi le ossa in Europa. «Stette prima a Perugia, all’Università per gli stranieri, poi a Roma. Qui incontrò una famiglia che “lo adottò” con il cuore, e che lo fece venire a studiare a Viterbo. Abitava a San Martino, a Palazzo Doria». Mirella si innamorò pazzamente di lui, e dopo il diploma e il matrimonio accettò di seguirlo nella sua terra lontana. Per lei il salto tra Italia e Iran non fu affatto semplice. «Essere catapultata in una realtà così differente, oltretutto in un piccolo centro rurale del sud, fu impegnativo».
Il papà di Mariam era tecnico petrolifero, e nel paesino viveva una comunità di italiani che lavoravano alle piattaforme. «Piano piano mamma si è ambientata, ha trovato un lavoro come segretaria, ha fatto amicizie. Nei giorni di festa il profumo del ragù si mescolava agli aromi della cucina locale. E i figli sono arrivati presto: due maschi e una femmina». Mariam è nata nel 1967 a Khorramshahr, e quando aveva due anni la famiglia si trasferì nella capitale Teheran. «Sotto il regno dello Scià in Iran c’era prosperità», racconta. «L’imperatrice, Farah Diba, si spendeva moltissimo per le donne iraniane. Aveva voluto scuole per le bambine anche nei villaggi più sperduti. Quando lo Scià tentò di svincolarsi dal controllo delle potenze occidentali, fecero di tutto per farlo cadere. E successe: eravamo agli inizi del 1979». Ma accadde anche che il nuovo governo integralista distruggesse tutto ciò che era stato in precedenza costruito, riportando indietro nel tempo il paese. «Ero piccola, ma ricordo la rivoluzione, le grida dei ragazzi che manifestavano nelle sere d’autunno. Durante il giorno ci ritrovavamo spesso in macchina in mezzo a manifestazioni violente in cui si sparava, e mia madre disperata ci faceva accucciare sotto i sedili dell’auto per proteggerci. Noi bambini rimanevamo chiusi in casa, ma i miei genitori erano costretti ad uscire per andare al lavoro, senza la certezza che sarebbero rincasati la sera». Con il nuovo regime arrivarono nuove regole e nuove restrizioni. «Non potevamo più frequentare le scuole straniere. Gli uomini non potevano più portare la cravatta e dovevano portare la barba, le donne dovevano coprirsi il capo con il velo. Io non capivo perché. Alla sera io e mio padre avevamo un rituale tutto nostro: mi spazzolava a lungo i capelli, che all’epoca erano lunghissimi, neri e lucidi. Mi diceva quanto fossero stupendi. Ma nessuno oltre alla mia famiglia poteva più vederli. I nostri connazionali pensavano che quella situazione non sarebbe durata, ma mia madre, quando realizzò che lì non c’era più futuro, disse: porto via i miei figli da questo paese».
Nell’estate del 1979 Mirella riportò i suoi figli a San Martino al Cimino e andò a cercare lavoro in provincia di Milano. «Papà per il momento rimase in Iran per il suo lavoro, poi ci raggiunse. Prima della rivoluzione, mamma era riuscita a fare carriera nella compagnia petrolifera nazionale iraniana. Una carriera memorabile, perché lei era donna e straniera. Tornata in Italia, mise a frutto le sue competenze lavorative. Tutta sola cercò casa in una Milano che non conosceva. Ma era coraggiosa e ottimista, e sapeva andare sempre oltre. Prima di partire aveva comprato dei bauli, li aveva riempiti di tappeti persiani e li aveva spediti a mio nonno, a san Martino. Arrivati in Italia soltanto con quattro vestiti addosso, quei tappeti rappresentarono un piccolo tesoro». Mariam è rimasta a San Donato Milanese per undici anni. «Quando sono venuta in Italia non ero né italiana né iraniana», prosegue Mariam. «Sapevo scrivere italiano ma non lo parlavo. Sapevo parlare in farsi, ma non lo scrivevo. La rivoluzione aveva rivoluzionato anche me…». A Viterbo Mariam arriva per amore, e quel ponte diventa un cerchio richiudendosi: conosce il suo futuro marito, si sposa, ha due figlie, oggi è una nonna felice. «Vorrei che le mie figlie avessero una vita bellissima, oltre il qualunque. Sono arrabbiatissime con me perché non ho insegnato loro la lingua persiana. Amano la cultura iraniana e sentono questa doppia appartenenza, che si concretizza anche in cucina. Mi piace invitare amici alla mia tavola, sono conviviale, estroversa, tipicamente iraniana. Arrivare a Viterbo e rapportarmi alla mentalità locale all’inizio è stato un trauma: avevo la sensazione che per me queste mura rimanessero sempre ostinatamente chiuse».
Alla fine Viterbo è riuscita a fare breccia anche nel cuore di Mariam, che si è avvicinata inizialmente alla fotografia per condividere la passione del marito. «Oggi invece vivo questa passione in modo autonomo e personale. Adoro fare i ritratti, avere la possibilità di vedere qualcosa di una persona e di intrappolarla in uno scatto. Sono per il bianco e nero, che ti dà l’anima della fotografia. Mi piace tanto anche fare la street, perché anche lì, carpe diem, cogli l’attimo. Prendere in mano la macchina fotografica quando “mi va” di farlo, non quando “devo”. Sono istintiva, al di là dei corsi che pure ho frequentato. Magari i miei scatti non saranno puliti, ma dentro c’è il mio cuore». Mariam oggi è parte attiva nella comunità viterbese, sempre pronta a spendersi per iniziative culturali e a favore delle donne, anche alla luce di quanto è accaduto e sta accadendo nel suo paese natale. Lo scorso otto marzo è stata invitata a raccontare la propria esperienza in un incontro dedicato alla violenza di genere, organizzato a Palazzo dei Priori. «Quello che sta succedendo ora in Iran è una rivolta che si ripropone, anche se in maniera differente. Stavolta si parla di libertà. Non si può morire per una ciocca di capelli fuori posto. I ragazzi non possono rischiare la vita perché vorrebbero ballare per strada. La vita ha valore, le donne hanno valore. Quella che stanno facendo, secondo me, è una lotta anche per noi occidentali, che pensiamo sia scontato avere la libertà di pensiero, di parola, di lasciare i capelli liberi al vento. E fa male che l’intero popolo iraniano sia rappresentato da quella che è solo una minoranza al potere: invece è meraviglioso, orgoglioso e ospitale». Mariam ama affidare ai social i suoi scatti che ritraggono una Viterbo finalmente bella ai suoi occhi, ma anche le sue riflessioni e i suoi pensieri. «Mia madre ha scritto la sua vita su un libro, io mi racconto sui social. Vita qualunque? La sua non è stata assolutamente qualunque. E in qualche modo parallelo anche la mia vita non lo è stata. Ma lei ha vissuto situazioni più “estreme” delle mie». Compreso il finale, dolce e amaro allo stesso tempo. «Quando è mancata, nel 2018, mamma soffriva di Alzheimer. Per una come lei, perdere gradualmente la memoria è stato un dolore immenso. La sera le leggevo brani del suo libro. Una volta mi interruppe chiedendomi: “Chi ha scritto questo libro?”. Tra le lacrime le risposi: “Lo hai scritto tu”. Mi rispose sorridendo: “Davvero? Com’è bello!”.