Uomo di multiforme ingegno e per questo uomo non banale. A partire dal nome di battesimo: Noris. “I problemi per me cominciarono già in prima media con l’insegnante che pensava fossi una donna, tanto è vero che fui inserito in una classe tutta femminile. Non gradiva e, a fine anno, fui bocciato, indovini perché? Sì, meglio che cambiassi classe. E ancora con il servizio militare e alle elezioni, e sempre perché Noris sembrava un nome di donna. Tutta colpa di mio padre che quando venni al mondo decise di chiamarmi come un suo amico. Cosa significa? Credo abbia origini latine, vuol dire nuovo, rinnovamento. Insomma, qualcosa di nuovo”. Noris è Noris Angeli, un anziano signore, 86 anni splendidamente portati. “Anche se qualche acciacco ce l’ho”, ammette con un sospiro. La sua seconda casa da anni è il Cedido, Centro Studi Diocesano (foto), sotto gli austeri bastioni del Palazzo dei Papi. E’ qui che lo incontriamo, dietro la “sua” scrivania, a sinistra dell’entrata. Ha scritto – e continua a scrivere – di storia, di poesia, di monumenti, di personaggi, di famiglie viterbesi. Uomo, appunto, di multiforme ingegno. Riservato, schivo, anche se poi si apre fino ad arrivare alla confidenza. Tra i lavori dati alle stampe, saggi storici come “Le famiglie viterbesi”, “Nel nome delle vie”, “Orefici e argentieri a Viterbo”, “Viterbo e le sue torri”. E poi decine di poesie raccolte nel “Il mondo di Fabio”, “Incontri fuori stagione”, il poema storico “Princivalle”. Perfino un volumetto che tratta di musica classica. Si sente un autentico figlio di questa terra, anche se i nonni erano di estrazione toscana. “Come sono capitato a Viterbo? Mio nonno Giansimone, dopo tante peripezie, approdò qui per fare il mercato, conobbe mia nonna e la sposò. In tre circostanze si recarono insieme a Roma e tutte e tre le volte lei si perse nella grande città. Un’ottima scusa per non muoversi più da Viterbo”.
Come nasce il suo amore per la storia viterbese?
“Nasce a dodici anni, quando mio padre mi regala un piccolo libro dello Scriattoli sui monumenti di Viterbo. Quello grande costava troppo, però ebbi la fortuna di averlo in prestito dalla ditta Buffetti. Purtroppo l’ultima pagina gliela macchiai con tre gocce di inchiostro”.
Poi si è messo in proprio. Cioè ha cominciato a scrivere…
“A otto anni già compilavo poesie per la Diocesi. Poi mi sono innamorato degli archivi storici. Per anni e anni ho consultato documenti di ogni tipo. Prima qui al Centro Diocesano, poi all’Archivio di Stato e di nuovo al Centro Diocesano. Molte cose ho scritto e pubblicato. Altre sono pronte per essere pubblicate”.
“Delle umane fragilità”, le rubiamo il titolo di un lavoro ancora nel cassetto. Di che si tratta, lo può anticipare?
“Vite matrimoniali, stupri, omicidi, superstizioni e altro nel territorio della Diocesi. Raccoglie racconti anche scandalosi e temo… Uhmm. E’ un po’ la storia del costume di questa città e di questa provincia che sono sostanzialmente bigotte. Qui ne sono successe di tutti i colori. Storie di casini, nel senso letterale della parola, che si trovavano a San Martino e Bagnaia, dove sostavano nutrite corti cardinalizie e non soltanto per spirito religioso. Ho inteso conoscere questa città andando oltre e più profondamente rispetto a ciò che pure hanno riportato autori prestigiosi e preziosi come Pinzi e Signorelli”.
Altro titolo, di un altro lavoro: “Soprattutto donna”. Cioè?
“Si parla evidentemente di donne viterbesi, da Santa Rosa a quelle di facili costumi, passando tra coloro che si sono distinte in campo artistico. Le ho messe tutte”.
Che mestiere ha fatto nella vita, oltre a scrivere?
“Un po’ di tutto. Prima ho lavorato all’ingrosso con mio padre, articoli casalinghi e da regalo. Anche girando per i paesi della provincia. Mi sono sposato, ho avuto tre figli. L’ultimo magazzino lo abbiamo avuto, qui a Viterbo, dinanzi alla chiesa del Gonfalone. A 53 anni, ho avuto delle difficoltà e sono stato costretto a chiudere. Per fortuna ho incontrato alcuni amici, tra i quali i monsignori Zarletti e Del Ciuco che mi hanno dato una mano. Ho lavorato anche con la ditta Ciorba e poi con la ditta Marcoccia. Ho venduto i libri casa per casa, ho consegnato le bollette in provincia. Fino a quando mi sono ammalato. Un sindaco del tempo mi promise un aiuto. Sto ancora aspettando. Vabbe’, fa parte della natura umana. L’uomo l’ho sempre messo al centro delle storie che ho scritto. Il monumento è opera d’arte, è bellezza, ma chi ne è artefice? L’uomo, con i suoi pregi e i suoi difetti. Nel voler conoscere la città mi sono impegnato a studiare, apprendere, capire, anche rispetto al fattore umano”.
Alla fine cosa ha capito di Viterbo, magari nel 2024?
“Abbiamo perso ogni peculiarità. Dovremmo riacquisire certi valori che sono un nostro patrimonio. Nel solo centro storico ci sono 250 edifici e bisognerebbe dividere la città in quattro quartieri, come una volta: San Lorenzo, San Pietro, San Sisto, San Matteo. Le targhe andrebbero buttate via e sostituite da nuove insegne in maiolica con gli stemmi di quartiere per ridare a Viterbo la propria identità in base allo Statuto del 1251. Poi l’arredo urbano che dovrebbe essere curato: sui vari palazzi andrebbero affisse targhe storiche. Vedo Viterbo come una città a vocazione turistica e termale. Oggi non è né una né l’altra. Qualcuno qui pensa che il turismo sia una seccatura e delle terme se ne frega. Le Terme Inps sono lì a dimostrarlo. E che dire dell’Orto Botanico? Per realizzarlo sono state devastate flora e fauna esistenti. Al Bulicame c’erano le piscine che erano utilizzate per macerare la canapa e non dovevano servire per altri scopi. Ho partecipato a tanti convegni: chiacchiere e chiacchiere. Ti fanno parlare, poi fanno come meglio credono. Mi sono detto: meglio starsene zitto che essere una voce nel deserto. Anzi, meglio continuare a scrivere”.