Il viaggio. Sensi ed emozioni cambiano i linguaggi che ci fanno viaggiare, anche quando spostarsi nel mondo diventa difficile…. perché, forse ancora di più in questi tempi, la voglia e il desiderio di viaggiare, anche solo con la fantasia, aumentano.
PRIMETTA
Ce l’ho davanti agli occhi quel gigantesco incensiere che ondeggiava sulle teste di centinaia di fedeli, da un capo all’altro della navata centrale della cattedrale di Santiago di Compostela, con la leggerezza di un acrobata sul trapezio. I vapori che sprigionava al termine della sua lunga corsa – programmata da un complicato ordigno posto accanto ad uno dei pilastri della chiesa – odoravano di acre e si dissolvevano subito nel nulla, tra le volte altissime del soffitto. Da una finestrella sull’altare maggiore scorrevano a ritmi cadenzati, come slides di un vecchio proiettore, i volti dei pellegrini da poco arrivati, tanto diversi gli uni dagli altri, tutti in fila e uniti dalla malcelata soddisfazione d’aver portato a termine un grande sogno, cioè quello di toccare con mano il sepolcro dell’apostolo Giacomo, posto lì sotto. Per farlo, molti di loro hanno camminato per giorni e chilometri.
A ripensarci bene provo, ora, un forte rammarico, perché in quell’anno giubilare compostellano del Novantanove ero ancora abbastanza giovane e avrei potuto affrontare anch’io il viaggio a piedi, solo se qualcuno me l’avesse ragionevolmente proposto. Oggi, nella stagione dei ricordi, ripenso con nostalgia a quei giorni di Santiago e soprattutto a quella notte da tregenda quando, insieme a tre amici arrivammo in città, dopo due giorni di viaggio con una VW Passat, sotto un diluvio universale.
Impiegammo più di mezz’ora per trovare il residence prenotato dall’agenzia. Per nostra fortuna incontrammo un angelo, sotto le spoglie di un ragazzo del posto, che ci indicò la via giusta. Malumore subito rientrato appena varcata la porta della camera, ben dotata di ogni accessorio ed anche di un angolo-cottura, piuttosto provvidenziale data l’ora tarda. E pensare che nella parte finale del viaggio, dopo Santander, avevamo già in bocca il sapore della paella che ci saremmo gustata non appena arrivati.
La mattina seguente aveva smesso di piovere ed il cielo della Galizia s’era aperto a colori irreali, su cui soffiava un’aria salmastra dai profumi indefinibili. Ed eccoci in strada, confusi tra gente silenziosa e discreta, a percorrere l’ultimo tratto a piedi fino alla cattedrale. Mi stava accanto un olandese, senza età, basso e ossuto come sanno esserlo i maratoneti, con il volto rinsecchito, a mo’ di sughero, solcato a tratti da una barba ispida e rossastra. Sulla sua sagoma esile e nodosa incombeva un cappellaccio a falde larghe, con ninnoli e minuscoli campanelli. Il bastone doveva essere stato intagliato a mano, tanto era grezzo e bitorzoluto. Gli scarponi erano un autentico cimelio, praticamente senza alcuna forma, di colore incerto, fermati da lunghe stringhe rosse che s’avvinghiavano fino ai polpacci lasciati in vista da un paio di calzoni alla zuava. Alle spalle, una bisaccia consunta, morbida e quindi capiente da cui pendevano una macchina fotografica anteguerra, una borraccia dondolante e una minuscola padella unta e polverosa. I suoi passi brevi e scattanti lo costringevano a saltellare sull’acciottolato, cosa che peraltro faceva con estrema disinvoltura. All’arrivo in piazza, al cospetto della cattedrale, si mise subito in fila per entrare dalla porta laterale, come se già sapesse tutto. A noi ci volle del tempo prima di capire che non si accedeva dal portale principale.
Ad un tratto, vedo in disparte quattro giovani suore novizie con l’abito grigio e il velo bianco. Appartenevano alla congregazione di San Trifone (mai sentita prima). Il volto di una di loro mi incuriosì, come se mi fosse familiare. Ma sì era Primetta. Riconobbi la sua voce, il sorriso, il modo di volteggiare le mani e di muoversi. Un po’ ingrassata ma sempre agile e scattante. Avrei voluto avvicinarmi e presentarmi, ma convenni che non sarebbe stato il caso. Primetta la conobbi nel 1993 a Lenola, un paese del basso Lazio, dove mi ero momentaneamente trasferito come rappresentante di zona di una ditta di elettrodomestici.
Faceva parte del circo montenegrino di Kotor, uno di quei circhi di quarta categoria che girano tutto l’anno senza tregua tra i paesi di provincia. Tre carrozzoni, uno striminzito tendone a strisce sbiadite bianche e rosse, un paio di vecchi dromedari acciaccati dai reumatismi e maleodoranti, il padrone-presentatore, un clown tuttofare che scattava le foto mentre vendeva pop corn e patatine fritte e una giovane coppia di acrobati. Una di loro era Primetta, la figlia del principale. La sera del debutto mi accodai ad un sparuto gruppo di spettatori per passare due ore. Lenola, almeno a quel tempo, non proponeva tante alternative. Pioveva a dirotto e il tendone faceva fatica a stare in piedi.
Primetta fece il suo numero nella parte finale dello spettacolo. Indossava un mantello azzurro, tipo Biancaneve, sotto cui guizzava un corpo esile, nervoso e ben proporzionato, fasciato da un body arancione che ne esaltava le forme. Avrà avuto non più di diciott’anni. Le labbra rosso fuoco, non volgari ma seducenti, dispensavano sorrisi ammiccanti all’esigua platea e quindi anche a me, seduto in prima fila. S’arrampicò sulla scaletta di corda con l’agilità di uno scoiattolo per raggiungere il trapezio sotto il quale era stata sistemata una rete di protezione. Il compagno aveva già preso posizione dalla parte opposta, pronto ad afferrarle le mani. Al rullo della batteria, diffuso da due casse acciaccate dal tempo, Primetta si librò nell’aria con la leggerezza di una libellula, proprio come l’incensiere della cattedrale.
Dopo il numero, chiamò il clown e si fece fotografare insieme a me, come del resto faceva con tutti gli altri. Non sapendo che fare, con evidente impaccio le dissi che fuori era una serata infernale. Mi rispose “Abbia fede, domani ci sarà il sole”. Previsione piuttosto banale e scontata, dato che stavamo in primavera, ma fatta con la gioia negli occhi e una disarmante serenità che mi lasciarono un dolce ricordo, come un fugace innamoramento. Ho conservato quella foto per qualche tempo, poi l’ho persa in qualche cassetto, ma non dimenticata.
Intanto la piazza della cattedrale s’andava popolando di pellegrini. Cercai con lo sguardo le quattro suore ma non le vidi più. Entrai allora in chiesa con gli amici. L’incensiere prese a danzare come un trapezio e rividi lassù, tra le volte, il body arancione di Primetta, un amore svanito prima di nascere.
Foto cover: la cattedrale di Santiago de Compostela