Lo ripeto sempre ai parmigiani: “Il vostro Ducato è un gioiellino che regalò un papa viterbese a suo figlio Alessandro Farnese”. Ci penso quando vedo i colori gialloblu che sventolano. Poi, loro hanno avuto Maria Luigia, noi i Gatti e i Tignosi, quelli che senza il racconto di Massimo Onofri saremmo ancora qui a cercare di decifrare la viterbesità rigirandola tra le mani come un giocattolo retorico. Marcel Proust sognava Parma. Era color malva. Un sogno ammiccante, tremendamente sexy, per chi apprezza del sex appeal l’impalcatura cerebrale, fatto di nebbie, come un pomeriggio senza parole. Io arrivavo dal color peperino, più intransigente, più schietto e meno propenso alle galanterie del Ducato. Il peperino del Parco del Mostri, dove non ti immagini che la vita possa essere scolpita così: mostruosamente bella e sbilenca. Arrivavo da un paesaggio felicemente contorto, con l’intimità e lo smarrimento che solo le città senza decumano offrono. Le palme stanche sferzate dalla tramontana, i saliscendi poi a sorpresa un lavatoio, una fontana, un pulpito sospeso, l’odore cupo e austero di certe chiese, l’insegna di marmo a piazza della Morte lasciata dai pellegrini che oggi avrebbero aperto un blog per raccontare il lungo viaggio, a piedi, da Viterbo a Gerusalemme.
Quando torno c’è il profumo dei forni e il cartellino gastronomico da timbrare a metà mattina con la pizza bianca, calda e avvolta nella carta scura. E chissà, se fa le consegne a domicilio fin quassù il pizzicagnolo di piazza Fontana Grande che si è aperto un profilo facebook molto swing, tutto grembiule e vespetta.
Quando torno spero sempre che ci sia un pic nic organizzato, una casa di campagna in mezzo agli ulivi. Porto gli amici a Viterbo e in macchina allungo fino alla periferia estrema del Salamaro, così solo per il gusto di vedere che faccia fanno a passare in mezzo agli incavi alti e stretti che si è scavata la roccia. O a Pianoscarano, dove cercano di decifrare gli strati di storia che ha accumulato terrazzamenti medievali e vecchie cantine, botteghe e giardini incantati. Oppure, se è primavera, il massimo è scorrazzare sulla strada Filante, quella che dalla Cassia porta al Principato di San Martino al Cimino. Non sto scherzando: quella scritta con lo spray “principato” c’è da tempo immemore, ma si vede che non è solo la collina a essere altezzosa lì.
Quando torno c’è Giorgio che sa tutti i segreti e le gemme, vere e figurate, dell’orto botanico di Viterbo. Uno che non ci si stanca di ascoltare, che ti porta in giro tra le serre di orchidee e l’Agave che fiorisce una volta sola nella vita e poi muore. Giorgio che si ferma davanti ai gelsi e resuscita gli amori di Filemone e Bauci. Uno che annaffia i versi di Ovidio con la devozione del classicista.
Quando torno c’è mia madre che portava delle zeppe altissime, con una fantasia a fiori, rifinite con un nastro di raso azzurro. E riusciva a destreggiarsi con noi tre (le mie sorelle, una mi fa mangiare la polvere da quando esisto: ha solo tredici mesi più di me e un bambino battezzato a Sant’Andrea) nella discesa che porta all’ex Onmi, l’asilo nido a Sant’Agostino, all’ombra della chiesa della Trinità, dove il cremisi prova a corrompere, per una volta, il peperino. Lì ci sono scalini scalette perfette per i baci. E poi quando torno c’è mio padre che ci portava a camminare nella faggeta, sui Monti Cimini, e srotolava le amache nel bosco fino a quando c’era luce, e a volte oltre. C’è un momento sacrale, a casa, quando arriva l’olio nuovo con quel colore fosforescente e le bruschette che scompaiono affogate nel piatto.
Vi svelo un segreto: a Parma mi porto la marmellata di more made in Tuscia e pure i sacchetti sotto vuoto delle nocciole tostate per farmi l’aperitivo in casa, quando verso le otto di sera sono ancora lì, in attesa del tiggì, davanti al pc.
(Stefania Piras, nata trentadue anni fa dall’incontro di due sardi, Gesuino e Gesuina, che si sono conosciuti a Viterbo. Ha lasciato un cuore sotto i portici di Bologna, ora vive a Parma dove fa la giornalista).