Suor Mercedes: dalla Bolivia alla Tuscia con amore

di Arnaldo Sassi

Parola d’ordine: aiutare gli altri, rendendosi utile il più possibile. Una missione vera e propria quella di Maria Mercedes Redondo Gutierrez, monaca della Congregazione delle suore adoratrici del sangue di Cristo, che ha abbracciato la Tuscia dopo una vita trascorsa a fare del bene, e che oggi dirige la casa di accoglienza di via IV Novembre, dove vengono ospitati studenti, lavoratori e soprattutto pellegrini in viaggio sulla via Francigena.

“Sono arrivata a Viterbo nel 2014 – racconta – e ho trovato tanto amore, tanta solidarietà e tanta simpatia da parte della gente. Qui facciamo accoglienza e accompagnamento in un clima di fraternità. Siamo una vera e propria famiglia. Tutti quelli che vogliono venire da noi sono i benvenuti. La nostra casa è cresciuta tantissimo grazie al passaparola”. Si ferma un attimo, poi riprende: “Sono orgogliosa di tutto ciò. Mi sento come una madre, una vera religiosa pienamente realizzata. Gestisco questa casa insieme a suor Elvira. Settimanalmente vengono ospitate oltre 20 persone, che vengono a Viterbo per studi, per lavoro, per un po’ di riposo, o sono pellegrini della via Francigena”.

Una vita tutt’altro che semplice quella di Maria Mercedes, spagnola, originaria di un sobborgo di Madrid. “Sin da piccola – dice ancora – ho avuto sempre un desiderio molto grande di aiutare gli altri. E crescendo, questo desiderio è stato alimentato dai principi etici ricevuti dalla mia famiglia”.

Quando è arrivata la vocazione?

“A 19 anni. Io sono della generazione del ’68. Tutte quelle proteste dell’epoca forse in parte erano anche giuste, ma a me non piacevano. Io volevo dedicare la mia vita a una causa giusta per un bene più alto. E così è arrivata la chiamata di Cristo”.

E come è avvenuta la scelta?

“Avevo sentito parlare di questa Congregazione italiana, fondata nel 1834, e ci sono entrata senza conoscere nulla. Ma mi è piaciuta sin da subito. Sono entrata in convento in Spagna, ma dopo circa quattro mesi sono arrivata a Roma, per compiere la formazione religiosa”.

Un passaggio veloce…

“Sì, ma ho dovuto ottenere il permesso da mio padre, altrimenti il governo spagnolo non mi avrebbe fatto uscire. Eravamo ancora sotto il regime di Franco. Ricordo che il viaggio in treno fu molto lungo perché passammo anche da Lourdes. Rimasi in Italia circa tre anni, poi rientrai in Spagna, dove frequentai l’università laureandomi in scienze umane. Quindi ho cominciato a lavorare in certi settori di Madrid per circa nove anni”.

Poi la svolta…

“Sì, la partenza per la Bolivia. Dove ho trascorso il più bel periodo della mia vita e dove sono rimasta per ben 25 anni”.

Facendo cosa…

“Ho aiutato soprattutto le bambine di strada. La Bolivia era un Paese poverissimo, con un altissimo tasso di abbandono dei minori. Io mi sono occupata soprattutto dell’evangelizzazione e della promozione della donna. Molte bambine furono anche riscattate”.

Scusi, che vuol dire?

“Che molte venivano vendute. Anche per una radio o addirittura per una bottiglia di vino. Altre erano orfane, ma quasi tutte destinate alla prostituzione”.

E quale era il suo ruolo?

“Io facevo da insegnante di appoggio. In certi periodi abbiamo avuto anche 80-90 bambini, tutti affidati alla nostra Congregazione dalla polizia o dal tribunale dei minori. Ma le difficoltà erano tantissime”.

Soprattutto economiche, immagino…

“Sicuro. Il governo ci dava un euro a bambino e doveva servire per tutto: cibo, vestiti e quant’altro. Ma poi ci aiutava la gente. Soprattutto i campesinos (i contadini, ndr) ci davano una mano”.

E che altro…

“Difficoltà burocratiche. Molte di queste bambine non avevano neanche il certificato di nascita e allora risolvevamo col battesimo. Con l’attestato di battesimo potevamo iscriverle a scuola. Insomma abbiamo dovuto usare quell’escamotage, talvolta inventandoci anche la data di nascita, ma a fin di bene”.

E una volta diventate adulte queste giovani cosa hanno fatto?

“Devo dire con grande soddisfazione che il 98 per cento di quelle ragazze sono riuscite a costruirsi una vita normale. C’è stata chi ha studiato, altre sono diventate infermiere, altre ancora hanno aperto un piccolo negozio, molte le abbiamo accompagnate al matrimonio. Ci ha molto aiutato la Congregazione, ma anche la gente del posto”.

Come mai poi l’avventura in Bolivia è terminata?

“A causa di una malattia. Ho cominciato ad avere emorragie e per curarmi sono dovuta rientrare a Roma. Al Gemelli mi hanno guarito. Avevo un angioma. Poi mi hanno mandata qui a Viterbo, ad occuparmi di questa casa di accoglienza”.

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Che bilancio fa della sua vita?

“Sono orgogliosa di tutto quello che ho fatto perché penso di aver raggiunto il mio scopo. Essere utile agli altri è sempre stato il fondamento della mia esistenza. Credo che la mia missione sia riuscita. Ma solo e soprattutto con l’aiuto di Dio”.

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