Tuscia in pillole. Il recupero di Santa Maria in Gradi

di Vincenzo Ceniti*

A Viterbo la chiesa di Santa Maria in Gradi è rimasta la sola a non essere stata restaurata e recuperata dopo i bombardamenti dell’ultima guerra, malgrado le tante promesse da ogni parte politica e non. E pensare che la sua struttura risalente al XIII sec., tutt’uno con l’annesso convento dei Domenicani, ha fatto testo tra i capo-mastri della Tuscia viterbese, coi suoi stilemi borgognoni introdotti in quegli anni dai cistercensi di Pontigny, attivi nella vicina abbazia di San Martino al Cimino. Quei nuovi moduli gotico-romanici, visibili soprattutto in uno dei due chiostri, avrebbero influenzato l’impianto monumentale della città, compreso il palazzo dei Papi.

La chiesa è tuttora inaccessibile e impresentabile, mentre l’annesso convento, dopo l’esperienza di casa circondariale durata circa poco più di un secolo dal 1884 al 1993, è stato completamente recuperato dall’Università della Tuscia che ne ha fatto a Viterbo il suo quartier generale. Quel poco che è rimasto della chiesa ci rimanda al rifacimento settecentesco di Nicola Salvi, quello della Fontana di Trevi di Roma, che ne trasformò le sembianze cancellando in buona parte le radici medioevali.

I viterbesi più stagionati la ricordano più come luogo di pena che di preghiera, trasformata com’era in un laboratorio per i reclusi addetti a lavori artigianali di tessitura, tintoria, falegnameria ed altro. Da ragazzo agli inizi del Cinquanta ebbi l’occasione di entrare nel carcere con mio padre per farmi cucire un abito su misura dal sarto dei penitenziario, un uomo magro e cortese che arrotondava la paga con lavoretti per i civili. Vidi allora per la prima volta un gruppo di detenutiti vestiti però senza divisa a mo’ di pigiama come immaginavo. In quegli anni il carcere Gradi (come veniva chiamato tout court dai viterbesi) “ospitava” anche Arnaldo Graziosi, tristemente noto per l’accusa di aver assassinato la moglie. Ma non era vero. Si trattò di un errore giudiziario, tanto che venne graziato nel 1959, dopo 13 anni di detenzione, dal presidente della Repubblica Giovanni Gronchi.

Da adulto, quel monumento maestoso e misterioso l’ho avuto sott’occhio per alcuni anni nel Sessanta, in quanto dalla finestra della mia camera in via Oslavia potevo seguire le mosse lente e controllate di un detenuto-ortolano che coltivava pomodori, broccoli, insalata, alberi da frutto e altro negli spazi a ridosso delle mura di cinta. Ho avuto modo di rientrarci alla fine degli anni Settanta per organizzare, su incarico della Regione Lazio, alcuni spettacoli teatrali per detenuti. Ebbi allora l’occasione di vedere di sfuggita il bandito Graziano Mesina che se ne stava come “un’ombra dall’un canto sola” come Guido di Montfort di dantesca memoria. Ci tornai nel 1994, dopo il trasferimento del carcere nelle nuove strutture di Mammagialla, per allestire un concerto dell’allora festival Barocco nella cappella, oggi trasformata in aula magna dell’Università. I lavori di restauro non erano iniziati e si respirava ancora l’aria sinistra del carcere. Sui muri si notavano come un libro spaginato, le scritte dei detenuti, con nomi, dediche, graffiti, appelli e altro.

Ho letto da qualche parte che al tempo dei primi domenicani, intorno al 1260, san Tommaso d’Aquino e san Bonaventura da Bagnoregio composero a quattro mani tra quelle mura il Tantum ergo. E’ comunque ricordata la visita intorno al 1220 del fondatore dei domenicani san Domenico Guzman alla chiesetta preesistente, su cui si sarebbe poi innestata quella monumentale, consacrata nel 1261 da Alessandro IV, quello del trasporto del corpo di Santa Rosa dalla Crocetta al Santuario, a lei dedicato da cui sarebbe nata la famosa Macchina di Santa Rosa. Il convento ha ospitato attraverso i secoli pontefici, cardinali, principi, regnanti, artisti, letterati di varie fama ed epoche, tra cui il papa francese Clemente IV, che alla sua morte nel 1268 avviò il primo e più lungo conclave della storia della Chiesa tenutosi a Viterbo.

Alcune fonti storiche ci informano che nei lavori di ristrutturazione della chiesa ad opera di Nicolò Salvi, a partire dagli anni Trenta del Settecento, vennero demolite le numerose cappelle, rifatto l’altare maggiore, aperto un finestrone al posto del rosone medioevale e risistemato il portico esterno con l’ampia scala di accesso. Il termine “Gradi” si riferisce infatti ai gradini della scalinata.

Fin qui i ricordi. Ora va ripensato concretamente un progetto di rifacimento dell’immobile come è avvenuto per il convento. L’appello, rivolto all’Università e alla Soprintendenza competente, viene dall’intera comunità di Viterbo e dalle istituzioni locali tra cui il Touring Club, che hanno da tempo scommesso sul futuro di città di cultura e universitaria. Il miracolo degli anni Novanta del secolo scorso, con la ristrutturazione del convento, va a tutti i costi replicato.

Potrebbe essere un'immagine raffigurante attività all'aperto e monumento

 

 

 

L’autore*

ceniti

Console di Viterbo del Touring Club Italiano. Direttore per oltre trent’anni dell’Ente Provinciale per il Turismo di Viterbo (poi Apt). È autore di varie monografie sul turismo e di articoli per riviste e quotidiani. Collabora con organismi e associazioni per iniziative promo-culturali. Un grande conoscitore della Tuscia.

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