A grande richiesta, come si diceva in gergo cinematografico, ritorniamo sulla Caterinaccia, personaggio mitico della Viterbo che è passata alla storia locale per la sua frase (ci scusino i lettori) “Il culo ti puzza”. Avrebbe risposto così, nei primi anni dopoguerra a una signora di buon lignaggio che l’aveva punzecchiata sostenendo che le violette che vendeva ai passanti emanavano un cattivo odore.
Caterinaccia (alias Giovanna Pannega) trascorse a Viterbo gran parte della vita, fino alla sua scomparsa nel 1974, a 84 anni. Quella risposta spontanea e colorita le costò due giorni di carcere, scontati a Santa Maria in Gradi dove oggi c’è l’Università. Si difese dicendo “Mi veniva a rompere l’anima che puzzavano le violette… Ma possono puzzare le violette?”
Il termine apparentemente dispregiativo “Caterinaccia” è riportato solo per rispetto alla cronaca (veniva chiamata così), ma non corrisponde certo alla simpatia che molti viterbesi avevano di lei, una donna emarginata e sfortunata, ma di grande dignità.
Per l’anagrafe nacque il 27 febbraio 1890 in una modesta casa di via Carlo Emanuele a Ischia di Castro nell’Alto Viterbese, terra di preti e dei Farnese che avevano qui una solida postazione nella rocca-palazzo che s‘acquatta, oggi silenziosa, al centro del paese. I suoi genitori erano di umili origini contadine. Si sposò a Ischia di Castro il 3 agosto 1930 con Oreste Calarco un povero diavolo che sbarcava il lunario a fatica (per qualche maligno era un’abile “manolesta”), di cui poi rimase vedova. La prese con il figlio Alfio di cinque anni avuto precedentemente al matrimonio.
Alfio porterà quindi il cognome della madre. Il padre naturale (si dice che fosse stato un uomo facoltoso) ci avrebbe messo molto del suo aiutando il giovane Alfio a studiare in un collegio a Roma. Caterina si trasferì definitivamente a Viterbo nel settembre 1930, andando ad abitare in un piccola casa in via Mazzini prossima all’imbocco di via del Suffragio. La sua vita è stata un continuo travaglio, condotta in miseria, a testa alta, senza una casa vera e con un figlio da crescere, peraltro avuto tardi all’età di 35 anni.
Ma c’era un angelo custode che non le faceva mancare una parola amica e all’occorrenza un sostegno. Un gigante buono, come nelle favole, dai grandi baffi all’insù e un borsalino a falde alzate tenuto in punta di nuca. Era Primo Nocilli – ben noto impresario di pompe funebri a Viterbo – che prima della guerra abitava con la sua famiglia vicino a Caterina in via del Suffragio. Si racconta che Primo in una notte sentì nella strada un forte lamento, scese e vide la povera donna straziata da un forte mal di denti. La portò subito dal dentista e tutto si risolse. Per queste e altre attenzioni lo chiamerà sempre Primorè, un vezzeggiativo da lei creato per esprimere tutta la sua gratitudine. Chi altri l’avrebbe fatto?
Quando il giorno di Natale del 1974 poco prima di morire nel letto dell’Istituto Pio X per malati mentali e disabili (conosciuto dai viterbesi come “San Tomasso”), Primo e la figlia Mara l’andarono a trovare per gli auguri portandole una scatola di dolci acquistati al forno Parea al Corso, per Caterina fu una gioia indescrivibile ed esplose balbettando “Primorè mi sei venuto a trovare. Grazie”. Era agonizzante, gli occhi spenti, senza più forze e voglia di vivere. Due giorni dopo morì e Primo le offrì quello che poteva, un funerale celebrato nella chiesetta dell’Istituto e una tomba al cimitero di San Lazzaro”.
Un altro capitolo della sua vita, dagli anni Quaranta in poi, la vede rintanata con il figlio Alfio nelle grotte di Poggio Giudio nella zona cosiddetta delle Fornaci (fuori porta Faul lungo la strada per le terme) in totale indigenza, senza luce e senza acqua che andava a prelevare nel fontanile interno a porta Faul davanti al mattatoio. Me lo ha confermato Giuseppa Basile che dal 1945 al 1960 ha vissuto con i suoi (erano in dieci) nella casetta attaccata a Porta Faul, dove in seguito andrà ad abitare Alfio. Le caverne di Poggio Giudio erano occupate da vari inquilini che vivevano in una misera comunità. Spesso si litigava e magari si veniva alle mani per gelosie, rancori, invidie ed altro.
Nel piatto oltre alle erbe selvatiche che raccoglieva nei campi, c’era ogni tanto una minestra calda distribuita in quei tempi dall’Eca (Ente comunale assistenza), cui si accedeva da un vicolo di via della Marrocca. Le cose si complicavano negli anni dei bombardamenti: patate lesse o sotto la brace (spesso solo le cocce), un tozzo di pane, qualche frutta marcia e poco altro. (Segue)
Nella foto, la Caterinaccia
L’autore*
Console di Viterbo del Touring Club Italiano. Direttore per oltre trent’anni dell’Ente Provinciale per il Turismo di Viterbo (poi Apt). È autore di varie monografie sul turismo e di articoli per riviste e quotidiani. Collabora con organismi e associazioni per iniziative promo-culturali. Un grande conoscitore della Tuscia.