Tuscia in pillole. La fiaccola e Schenardi

di Vincenzo Ceniti*

Il Gran Caffè Schenardi di Viterbo, di buon lignaggio quattrocentesco, era l’insostituibile punto di riferimento, non solo per la circolazione delle notizie e delle idee, ma anche per l’agenda giornaliera, tanto che la pagina locale del Messaggero gli intitolava una rubrica (“Davanti a Schenardi”) dove erano riunite informazioni utili: farmacie di turno, spettacoli, forni aperti, sposalizi, lutti, culle ecc.

Agli inizi degli anni Cinquanta del secolo scorso, dietro la cassa sedeva un personaggio eclettico, amato e non amato, come Renzo Javarone che gestiva il Caffè insieme al fratello Celestino. Lo condurrà fino alla fine degli Ottanta. Al banco “operativo”, tra vapori di caffè, liquori, tazzine e bicchieri si muoveva, con professionalità e cortesia il simpatico Arduino, uno dei barman ufficiali, svelto in tutto, specialmente nel preparare i cocktail. Tra gli altri si ricordano Otello e Matteo.

In quegli anni si andava da Schenardi per le quattro chiacchiere serali, per l’aperitivo, per giocare a biliardo, per vedere da vicino le soubrette che scendevano al Teatro Unione o al Genio nelle acclamate riviste dell’epoca (da ricordare nel 1953 la storica “Davanti a lui tre-Nava tutta Roma” con le sorelle Pinuccia, Diana e Lisetta Nava), per curiosare tra la squadra archeologica del re Gustavo VI Adolfo di Svezia impegnato dal 1956 insieme alla nipote Cristina, l’ammiraglio Wetter e uno stuolo di ricercatori negli scavi a San Giovenale e Acquarossa, o per stringere la mano all’”Americano”, Alberto Sordi protagonista nel 1960 del film “Il vigile”, in gran parte girato a Viterbo con comparse locali fra cui il sottoscritto (paga di 4.500 lire a giornata). Alberto Sordi ci venne a trovare al Palazzaccio dove stavamo provando, sotto la regia di Alberto Corinti del Gad Le Maschere, “L’albergo del Buon Riposo” una commedia brillante. Oltre al sottoscritto c’erano Paola Ceniti, Paola Leoncini, Orlando Araceli, Franco Mattioli, Flora Errera, Rino Galli, Radames Serpieri, Giancarlo Iacovelli, Luciano Ilari e molti altri.

Le feste della matricola, presiedute dal “Magnifico Palletta” di Gradoli (fuori corso a vita), spesso si concludevano con un aperitivo da Schenardi a spese del neo-patentato. Allora si andava all’università con picchi di colori diversi a seconda del tipo di facoltà. Rosso per Medicina, nero per Architettura, ciclamino per Economia e Commercio, verde per Matematica, bianco per Lettere, blu per Giurisprudenza e così via. Le malcapitate matricole venivano sottoposte alla gogna burlesca di un rituale di iniziazione ordito cinicamente dai “senatori” per il rilascio dell’agognato “Papiro”, provvidenziale lasciapassare negli atenei romani per evitare guai maggiori. Il Gran Caffè era tutto questo ed altro.

Nel 1960 accadde qualcosa di nuovo, grazie alla mente vulcanica di Renzo Javarone allora quarantenne (per gli amici il “gojo”), che sostenne l’idea di una fiaccola etrusca da unire a quella ufficiale per la XVII Olimpiade di Roma dell’agosto-settembre di quell’anno.

Javarone era un vulcano di idee – scodellate nel tentativo spesso vano di promuovere Viterbo – che in quegli anni mal si conciliavano con la compassata e stagionata politica locale guidata dal sindaco Domenico Smargiassi (aveva le sue con l’irrequieto consigliere Annibale Salcini), dal presidente della Provincia Ferdinando Micara (al timone anche della Camera di Commercio), dal Prefetto Alberto Novello, dal presidente dell’Ept Giuseppe Benigni e da altri i cui nomi ora mi sfuggono.

Javarone recepì l’idea della fiaccola di cui si parlava a Tarquinia in un cenacolo guidato dal sindaco di allora (1956) Bruno Blasi. In quei tempi ci fu un revival etrusco per promuovere la Tuscia viterbese e ci si fece e forza della notizia che nel 1936 in Svezia nelle campagne di Orebro (e precisamente ad Hassle) era stato rinvenuto un bronzo etrusco (oggi al museo Mediterraneum di Stoccolma) a testimonianza dell’espansione commerciale dell’antico popolo dell’Etruria nei Paesi del nord Europa.

Tutto questo convinse Javarone e gli “Amici del sabato sera”, da lui stesso costituiti, a collaborare attivamente per organizzare il viaggio di una fiaccola etrusca da Tarquinia a Roma con il coinvolgimento di alcuni centri dell’Etruria in occasione delle Olimpiadi del 1960. Ci fu addirittura un tentativo di gemellaggio tra Viterbo ed Orebro favorito da due giovani “messaggeri” di quegli anni, Francesco Petroselli di Viterbo e Remigio Gaisek di Fiume che andarono in autostop in Svezia per portare brevi manu una pergamena col messaggio di proposta al sindaco di quella città. Javarone ne aveva parlato con l’amico Orio Vergani (quello del “Campanile che cammina”) che si manifestò entusiasta dell’idea. Javarone mise d’accordo il diavolo con l’acqua santa, i democristiani con i comunisti, i bacchettoni con gli increduli, i viterbesi con i non viterbesi, e riuscì nel suo intento.

Il singolare trofeo (copia di un cratere etrusco individuato da Turiddo Lotti di Ischia di Castro), che non aveva un valore sportivo ma che simboleggiava la civiltà pre-romana nel nome dell’Etruria,.partì dall’Ara della Regina di Tarquinia alla volta di Roma il 16 agosto 1960 dove arrivò per accendere il fuoco della fiaccola olimpica sul Campidoglio. In precedenza, dal 16 al 30 luglio, il trofeo attraversò una quindicina di comuni etruschi dell’Etruria meridionale tra cui Tuscania, Barbarano Romano, Blera, Sutri, Viterbo, Civita Castellana, Bracciano, Civitavecchia e Cerveteri. La fiaccola viaggiava su una jeep militare e in prossimità dei centri abitati veniva portata dagli atleti del posto

A Viterbo la fiaccola giunse il 22 luglio 1960. Venne consegnata al primo dei tedofori (Carlo Scipio) in piazza Fontana Grande. Percorse tutto il centro cittadino fino a via Francesco Baracca; qui fu riposta sulla jeep e di nuovo consegnata ad un altro tedoforo (Roberto Trippanera) a poche centinaia di metri dal Teatro di Ferento dove fece il suo ingresso trionfale intorno alle 21,30. Sugli spalti (1300 persone) sedevano le massima autorità del posto e come ospite d’onore l’ambasciatore statunitense a Roma J. D Zellerbach, in precedenza contattato da Javarone. Tra i giornalisti c’erano gli inviati dei principali quotidiani nazionali (Corriere delle Sera in testa) e del New York Times. Seguì uno spettacolo di “Balletti etruschi di Villa Giulia”. Dopo la cerimonia di Ferento, a notte fonda, la fiaccola tornò a Viterbo, dove accese un tripode a piazza del Plebiscito che arderà fino all’alba, per poi proseguire la mattina seguente alla volta di Civita Castellana.. .

La presenza dell’ambasciatore Zellerbach fu l’occasione per stringere rapporti tra la confederazione etrusca e quella statunitense che crearono le premesse per un gemellaggio auspicato dallo stesso Javarone. L’iniziativa non ebbe però gli esiti sperati.

Curiosità. A cerimonia terminata la “fiaccola” venne portata al museo di Losanna dove si custodiscono i ricordi del patron delle Olimpiadi Pierre de Coubertin. Il presidente del Comitato di Viterbo era Ferruccio Gatta. Il presidente del Comitato d’onore della fiaccola era Giulio Andreotti. Le attività promozionali e di stampa vennero svolte dall’Ente Provinciale per il Turismo di Viterbo col presidente Giuseppe Benigni.

      

 

 

L’Autore*

Console di Viterbo del Touring Club Italiano. Direttore per oltre trent’anni dell’Ente Provinciale per il Turismo di Viterbo (poi Apt). È autore di varie monografie sul turismo e di articoli per riviste e quotidiani. Collabora con organismi e associazioni per iniziative promo-culturali. Un grande conoscitore della Tuscia.

 

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