Tuscia in pillole. Patroni in crisi

di Vincenzo Ceniti*

infiorata della salita dei frati Cappuccini

E’ un momentaccio per i santi patroni, un tempo celebrati da ottavari, tridui, funzioni, prediche, processioni e feste popolari, animati da preti, frati, pie donne e laici tuttofare.  La primavera era la stagione  preferita per queste ricorrenze, oggi in odore di estinzione, che coinvolgevano tutti  e che ricordiamo  con nostalgia.

Prendiamo Crispino (Viterbo 1668-Roma 1750)  patrono della chiesa-convento di San Paolo ai Cappuccini a Viterbo cui venivano dedicate negli anni del dopoguerra (Quaranta-Cinquanta) feste popolari e preghiere che si concentravano intorno al dies natalis del 19 maggio: luminarie, tombola, bancarelle, gare sportive, banda musicale, lotteria, pesca di beneficenza, processione. Malgrado la canonizzazione del 1982, per chi abitava in quel quartiere, come me, rimaneva sempre un aspirante santo. A quel tempo non sapevo chi fosse, cosa avesse fatto per meritarsi tanta simpatia, da dove venisse. Avevo però a mente una strofa del suo inno e sapevo che il “suo sorriso era candido (come vision d’amore), il sandalo immacolato e il velo mistico”.

Nell’approssimarsi della sua ricorrenza a noi più giovani veniva assegnato il compito di  bussare ad ogni porta del quartiere per raccogliere oggetti, libri, struffaglie e quant’altro utile alla lotteria cui era sempre riservato un rigo in grassetto nel cartellone dei festeggiamenti. L’inizio delle feste era annunciato dagli operai delle luminarie e dai palloncini colorati con candele e lampadine che erano accuratamente sistemati su alberi, finestre e balconi, specialmente dove passava la processione.

Illuminati a giorno il viale IV Novembre e la “Salita dei frati” (oggi via San Crispino) su cui era steso un tappeto di ginestre, rose selvatiche, fiordalisi, margherite, raccolti per tempo dalle ragazze del quartiere lungo i sentieri verso la Palanzana e il monte Pizzo. Acre e gradevole il profumo dell’incenso che rendeva più solenni le funzioni del triduo, commentate dalla voce roboante di un padre francescano, tale padre Agnello (si chiamava così) cui erano affidate le prediche di preparazione. Concludeva sempre le sue implorazioni con il gesto teatrale di girarsi verso l’altare, inginocchiarsi di colpo, a costo di fratturarsi il femore, e scandire a voce alta le ultime battute del sermone dedicate alla Madonna, con la sguardo puntato sul ciborio.

Con gli amici della parrocchia servivo messe e funzioni a ripetizione (vestito di tunica nera e cotta bianca merlettata), azionavo a mano il mantice dell’organo sistemato nel coro e mi univo al canto dei frati che aveva per epilogo l’inno al beato Crispino. Direttore stabile, padre Teodoro dotato di carisma, barba rossa e voce corposa e composta. Quei canti, vigorosi e coloriti, venivano diffusi  all’esterno da un gracchiante altoparlante della ditta Stefano Minelli (con bottega in via Marconi), appeso precariamente ad un palo. Nel 1949 i festeggiamenti assunsero maggiore solennità per l’arrivo ai Cappuccini dell’immagine della Madonna della Quercia che, in occasione   della Peregrinatio Mariae, compiva un festoso itinerario tra le varie parrocchie di Viterbo e dei dintorni.

Ai poveri del quartiere era riservato un pranzo preparato da volontarie  (antesignane della Caritas) nella sala delle conferenze, dotata di un ciclo di affreschi di padre Ugolino da Belluno sulla vita di San Francesco. Al banchetto sedevano una cinquantina di commensali  tra uomini e donne che si portavano appresso la gavetta per un provvidenziale rifornimento di avanzi. Ricorderò quella sala per il suo odore di cucinato intenso e gradevole. Proprio lì, alcuni anni dopo, avremmo organizzato un ciclo di spettacoli comico-musicali sugli schemi delle trasmissioni televisive di allora. Io facevo il presentatore. Il più noto di questi allestimenti si chiamava “Cappuccinissimo”.

La processione tra le vie del quartiere vedeva la presenza di tutti i frati Cappuccini in doppia fila, sistemati per rango e grado: in testa i seminaristi del vicino convento di Montefiascone, quindi i laici (i fratelli conversi) come l’elemosiniere, il cuoco, l’ortolano e il portinaio, poi gli studenti, i frati sacerdoti, dal più giovane e al più anziano e il guardiano (a volte anche quello provinciale). Sfilavano inoltre i bambini della prima comunione, le donne con velo in  testa, le suore, gli uomini del Comitato, i “Cavalieri di San Giorgio”,  il vicario del vescovo che reggeva l’ostensorio protetto da un drappo giallo-oro tenuto a bada da quattro bastoni e l’interminabile codazzo di fedeli,  democristiani e comunisti compresi. A cadenzare il passo provvedeva la banda musicale, cui era anche affidata l’esecuzione del concerto operistico “dopo cena” sul palco di piazza Crispi. L’ultima sera, quella più attesa, si concludeva con l’innalzamento di colorati  globi aerostatici (ogni anno preparati dal fedele parrocchiano Ascanio Botarelli) che spesso però andavano a fuoco, a causa del vento, prima del volo. La festa di San Crispino si avvicina, ma non la sento più nell’aria come un volta.

Nella foto, l’infiorata della salita dei frati Cappuccini per la processione (anno 1953)

 

L’autore*

ceniti

Console di Viterbo del Touring Club Italiano. Direttore per oltre trent’anni dell’Ente Provinciale per il Turismo di Viterbo (poi Apt). È autore di varie monografie sul turismo e di articoli per riviste e quotidiani. Collabora con organismi e associazioni per iniziative promo-culturali. Un grande conoscitore della Tuscia.

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