Come ogni anno, per capodanno, a Salerno si doveva mangiare il capitone.
La mia famiglia, ben dotata di quattro figli, ai quali andava per tradizione somministrato il bestione, pena urla fameliche del temutissimo e incontestabile capofamiglia, si industriava per il cenone.
“O’ capiton”, non era gradito a nessuno, nemmeno a mia madre. Tuttavia, non si poteva mettere in discussione la tradizione. Noi dubitavamo molto che piacesse a nostro padre. Ma non era concesso domandarglielo, pena doppia razione di capitone…quella che a lui non andava probabilmente.
Quell’anno non toccò alla nonna l’acquisto e la preparazione dell’animale, ma mio padre che, alla vigilia del 31, fece il suo ingresso trionfante al ritorno dal mercato: «We we! O’ capiton! L’ho comprato bello grosso e saporito». Alzò in alto, come il fa il prete durante la benedizione dell’ostia, una grossa busta di plastica annodata all’estremità superiore dove si contorceva in un poco di acqua una creatura spaventosa.
Noi bambini urlammo per il terrore e l’eccitazione.
Mia madre: «Ma che sei diventato pure esperto di capitoni? Perché non me lo hai detto prima che ti dicevo io da chi andare?» si avvicinò per meglio analizzare e, ovviamente, criticare la spesa di mio padre. «Ma lo hai preso vivo!» sussultò spaventata.
«Certo! E’ più buono. Così sappiamo che è fresco».
«E quando mai abbiamo mangiato il capitone guastato? E mo’ chi lo ammazza che io lo schifo? Mi mette paura. Dove lo vuoi posare ora?» protestò mia madre.
Mio padre lo depositò sul piano in cucina e tutti lo seguimmo in processione per vedere quel mostro che faceva tremolare la busta come se fosse stata di gelatina.
Poi si rivolse a noi con sguardo severo: «Voi, fuori di qui, subito!».
Mia Madre: «Lo sapevo che stamattina non ti dovevi impicciare delle cose che non sai fare».
«Non ti va mai bene niente».
Iniziò il loro litigio.
Decisero di scendere dalla signora Fortunata che abitava nella casa di fronte, conosceva e sapeva fare tutto, per chiederle se il capitone lo voleva far fuori lei, o almeno spiegarlo a mio padre, visto che mia madre era inorridita. In cambio portarono un piatto di zeppole di S. Lucia appena fatte. Prima di sentir chiudere la porta ci arrivò la voce portentosa di mio padre: «Alla larga da o’ capiton! Senno’ faccimmo i cunti!»
Finalmente liberi, andammo di corsa ad ammirare, timorati, la busta che vibrava.
L’anguillona stava arrotolata come le rondelle di liquirizia in quello spazio evidentemente troppo piccolo. Ogni tanto si srotolava a fatica e si dimenava mezza rimbecillita.
«Mamma mia quant’è grosso! E’ quant’è brutto».
«Sta stretto lì dentro. Se ci resta troppo, muore».
«Quanto sei scema, morirà lo stesso, ce lo dobbiamo mangiare».
«Liberiamolo».
«Sei pazza? E dove lo mettiamo?»
«Lo buttiamo dentro al gabinetto, poi lui trova la via».
«No è troppo grosso, rimane incastrato e dopo è peggio. E poi lo sai che ci fa papa’? Ci ammazza a noi!»
«Almeno facciamolo stare più largo».
Ci sentivamo come dei corsari. Bisognava fare in fretta sennò erano botte.
Prendemmo una grande bacinella ovale di plastica, usata per il bucato a mano, la mettemmo sul pavimento e ci rovesciammo dentro pentolate di acqua, finché fu piena.
Ora arrivava la parte veramente difficile e la affidammo al più piccolo che doveva sottostare agli ordini. Noi ce la facevamo addosso.
«Lo devi fare tu, ti faremo un regalo per il tuo coraggio. Avrai il posto in macchina vicino al finestrino, dietro al sedile di mamma per un mese». Già, perché quando si è in quattro figli, certi privilegi si cedono a tempo determinato sotto ricatto, o contrattazione.
Con la scopa a mo’ di rastrello il poverino doveva spingere il bustone, con la bestia che ci si contorceva dentro, fino al bordo del piano cucina. Poi, farlo cadere dentro la bacinella li sotto dove, dopo aver tagliato con le forbici il nodo, il capitone se la sarebbe sbrigata da solo.
Il bustone era pesante, il manico della scopa dovette essere timonato da almeno due di noi. Ad ogni contorsione seguiva un urlo e l’abbandono della scopa. Si ricominciava subito dopo.
Dopo un tempo eterno, il bustone caracollo’, ma non finì nella bacinella. Si schiantò sul pavimento di maiolica e si schiatto’ (scoppiò).
L’animalone, lungo più di un metro, ormai libero, ebbe prima un moto sussultorio, poi prese a svirgolare per la cucina in tutte le direzioni, stordito inoltre dalle urla e i pianti di terrore di tutti noi. Ci fu un fuggi fuggi generale. Chi salì sul tavolo, chi scappò in corridoio, chi si arrampicò sulla sedia.
Rimase il piccolo con la scopa in mano, incapace di reagire.
«Aiuto! Buttalo fuori! Muoviti!», urlavamo noi altri, che del coraggio non avevamo sentito mai parlare.
«Apri il balcone, spingilo fuori, E dai! Forza, fallo! Presto!».
Il piccolo a quel punto scoppiò in lacrime. Era la fine.
Bisognava intervenire tempestivamente, meglio affrontare o’ capiton, che le ire funeste del padre.
Agimmo allora tutti insieme a suon di scope e bastonate e grida. Povera bestia.
Non si sapeva chi aveva più terrore, se lei, o noi. Corri, di qua e di là, sedie rovesciate, oggetti lanciati, era un putiferio. Se l’animale avesse potuto suicidarsi lo avrebbe fatto volentieri.
Da fuori pareva che in quella famiglia stesse succedendo il finimondo, tant’è che i vicini erano usciti sul pianerottolo.
A balcone aperto e a suon di colpi di scopa, se ne si diede uno così vigoroso che il capitone si alzò in aria, oltrepasso’ la ringhiera e dalla condizione acquatica/terrestre passò a quella aerea. Non era previsto. Sgomenti ci guardammo e corremmo alla ringhiera, urlando in coro: «Nooo!».
Guardavamo, come ipnotizzati, il capitone precipitare dal sesto piano. Durante la discesa si contorceva modificando appena la rotta del volo. Si girava a testa in sù, poi in giù e di nuovo in orizzontale, articolandosi in una danza graziosa. Chissà come si sentiva.
I vicini, attratti dalle nostre grida, guardavano attoniti dai balconi.
La bestia atterrò esattamente davanti ai piedi dei nostri genitori che rientravano dal consulto con la signora Fortunata. Si sentì l’urlo di mia madre e si vide il formarsi di un capannello di gente.
Non avevamo più scampo. Riparammo negli armadi, piangendo in silenzio e tremando in previsione di ciò che ci sarebbe toccato. Ma nulla successe. Fummo appositamente ignorati e lasciati rannicchiati negli armadi. Il castigo durò ore. Fu un vero supplizio. Ma soprattutto, fu finalmente decretato che la tradizione del capitone di capodanno a casa nostra poteva finire quell’anno.