Uno sguardo dal ponte all’Unione

di Vincenzo Ceniti

Teatro 1

Subito il buio a rendere più grave il sudore e la fatica degli scaricatori di porto dell’arsenale di Brooklyn, covo di immigrati regolari e clandestini negli anni Cinquanta. Tra loro una famiglia di siciliani. Lui, lei e la giovane nipote di cui lui è infatuato. Lui è Eddie Carbone (Massimo Popolizio), lei è Beatrice (Valentina Sperli), la giovane nipote è Caterina (Gaja Masciale).

La passione incestuosa si fa tragedia con l’arrivo dalla Sicilia di due fratelli, Marco (Raffaele Esposito) e Rodolfo (Lorenzo Grilli), lontani parenti in cerca di fortuna e senza permesso di soggiorno.  Il primo è forte e robusto, tutto casa e famiglia, onesto lavoratore, con le idee chiare “Tempo quattro-cinque anni ritorno a casa mia e mi sistemo”. L’altro più giovane di età e di idee, canta, balla, scherza, prende allegramente la vita, spende tutto quello che guadagna e fa innamorare la giovane nipote. Quindi non piace a Carbone. Dopo averlo trattato da “femminella” per i suoi capelli biondi e per taluni comportamenti “disinvolti”, lo bacia in bocca davanti alla nipote per avverare uno “status” che sa di calunnia.  Alla fine, in un raptus di gelosia denuncia i due fratelli come clandestini. Per Marco è la fine di un sogno e arpiona Carbone con un uncino alla gola, uccidendolo.

A governare la tragedia, come filo conduttore di una serie serrata di quadri, proposti in sequenze da film in bianco e nero, è l’avvocato Alfieri (Michele Nanni), un personaggio esterno, che entra nelle vicende e vi esce con i tempi di un coro da teatro greco.  Sul palco arredi d’antan (scene di Marco Rossi, costumi di Gianluca Sbicca), del tipo credenze, sedie, tavolo, radio-grammophono, reperti-reliquie di un mobilio portato dalla Sicilia quando la famiglia era unita. In alto un ponte di ferro che attraversa la scena e che di notte sprigiona rumori e lampi di luci di treno in transito.

Fin qui il racconto di Arthur Miller (tratto da un fatto di cronaca) che dal 1955 viene riletto da i registi e attori di cinema, tv e teatro: Peter Brook, Luchino Visconti, Paolo Stoppa, Raf Vallone, Gastone Moschin, ma non solo. Massimo Popolizio l’ha fatto suo a modo suo (nel testo tradotto da Masolino D’Amico), con fondamentali robusti e recitazione volutamente sopra le righe, senza scheggiare tuttavia  la radice del lavoro di Miller che, di buon  lignaggio classico, sopravvive nei secoli, malgrado interpretazioni non sempre riverenti.

L’ora e mezza di spettacolo passa velocemente tutta d’un fiato, grazie a continui colpi teatrali, sorprese, inserti musicali d’epoca, incursioni di dialetto siculo spesso alla buona, gestualità anche eccessive ed altro. Il successo decretato dalla lunga tournèe in molte città d’Italia (Bari, Parma, Roma e poi Milano) conferma che il teatro, come l’opera lirica e il balletto va letto a seconda dei contesti di rappresentazione, a patto che non se ne deformi il contenuto. Popolizio non lo ha fatto e non ha neanche ceduto alla tentazione di confrontare i suoi personaggi con i migranti di oggi. Piuttosto si è concentrato sulla insania passione dell’uomo Carbone, un uomo “mostro” ma onesto, che non è riuscito a liberarsi dalle costrizioni di una cultura avvinghiata ai valori della terra natia. Per dirla con Arthur Miller “L’azione della pièce consiste nell’orrore di una passione che nonostante sia contraria all’interesse dell’individuo che ne è dominato, nonostante ogni genere di avvertimento ch’egli riceve e nonostante ch’essa distrugga i suoi principi morali, continua ad ammantare il suo potere su di lui fino a distruggerlo”. Questa è giustizia? L’avvocato Alfieri più volte gli risponde “Questa è la legge”.

Teatro 2

foto di Luciano Pasquini

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