Alla fine della prima media – giusto un paio di anni prima del trasloco nella nuova casa in via dell’Orticello – ero finalmente riuscita ad avere da mia madre il permesso di uscire con le amiche, almeno la domenica.
Avevo trascorso buona parte della mia infanzia a giocare da sola o con i miei fratelli, quasi sempre in casa, e avevo spesso guardato con invidia dalla finestra gli altri bambini che si divertivano felici per strada, nella piazzetta di sotto.
Finalmente arrivava anche per me la libertà!
Anche mia sorella da tempo usciva con il suo gruppo di amiche, anche se raramente accettava di portarmi con sé, perché una diciassettenne non poteva trascinarsi dietro una ragazzina di dodici anni: si vergognava di dover fare da balia alla sorella.
Le mie due amiche – due nuove compagne di scuola, una bionda e assai ligia al dovere, una mora e assai curiosa del mondo – avevano ricevuto l’approvazione della mamma: le famiglie erano rispettabili ed avevo addirittura il permesso di andare di tanto in tanto a casa loro.
Questa sì, che era una conquista!
La domenica, appena mangiato, non vedevo l’ora che arrivasse il momento di uscire: la mamma mi consegnava solennemente le cento lire, che sarebbero servite per comprarmi qualcosa.
Mentre mi sbrigavo ad andare in piazza – dove quasi sempre ci davamo appuntamento – studiavo il modo migliore per “investire” quella che a me pareva una vera sommetta: meglio un solo gelato grande, o tre ghiaccioli? Scegliendo questi ultimi – che costavano trenta lire l’uno – mi sarebbero avanzate addirittura dieci lire per comprarmi un piccolissimo pacchetto di caramelle.
Essendo di natura molto golosa, optavo quasi sempre per la quantità, piuttosto che per la qualità, e mi ingozzavo felice con i tre ghiaccioli, sgranocchiando soddisfatta anche tutte le caramelle.
LUNGO I VIALI
Si andava a passeggio per tutto il pomeriggio: d’inverno, dopo il cinema, per le strade del paese o in piazza, mentre in primavera ed in estate ci aspettavano i lunghi viali intorno al lago.
Questi viali erano e sono tuttora una delle bellezze del mio paese.
Come capita ancora oggi, a partire dalla primavera, si popolavano di persone, in particolare di domenica, e quelle uscite erano l’occasione giusta per fare incontri, trovare nuovi amici, cercare sguardi complici.
Non avevo mai avuto delle vere amiche, a parte le compagne di scuola delle elementari, che, però, non potevo quasi mai frequentare liberamente, e questa nuova forma di contatto umano, slegata dallo studio, mi piacque moltissimo, fin da subito.
In quel momento della mia vita ero ancora una ragazzina gioiosa e divertita. Le ombre dell’adolescenza non erano calate su di me. Galleggiavo all’interno di un alone di leggerezza, che avrei perso di lì a poco.
Il mondo lì fuori, infatti, che pure mi attirava, in misura maggiore mi incuteva paura.
Quando vieni su, convinta che fuori dalla porta di casa ci siano solo pericoli, cominci ad avventurarti fuori dalle tue quattro mura (reali e metaforiche) come se sotto i tuoi piedi ci fosse un campo minato. Il risultato finale è che, dopo qualche passo incerto, si sviluppa la paralisi, proprio al centro del campo. La mia, di paralisi emotiva, non avrebbe tardato ad arrivare, già dopo queste mie prime esperienze, apparentemente serene, dentro il mondo.
Di quel mio primo, timido, uscire dal guscio, ricordo ancora le lunghe chiacchierate con quelle nuove amiche, in particolare le confidenze tra di noi: sui ragazzi che trovavamo carini, sulle schermaglie con i gruppi di maschi che ci seguivano, desiderosissimi di attaccare bottone anche con tre bambinette che si avventuravano da sole senza troppa spavalderia.
Scoprii che ragazze giovanissime come noi potevano essere corteggiate persino da ragazzi più grandi, che ci seguivano con lo sguardo insolente, o suonavano il clacson quando passavano in macchina e questo creava quasi sempre in noi un enorme imbarazzo, uno stato d’animo al quale non eravamo abituate, perché eravamo davvero ancora molto piccole.
Eravamo già piuttosto carine ed in molti là fuori pensavano che fosse giusto farcelo sapere, ronzando intorno a noi come mosconi.
Anche in classe noi tre riscuotevamo un bel successo, ma giudicavamo quei maschi della nostra età non esattamente all’altezza della situazione: troppo ragazzini! I nostri cuori battevano per quelli un po’ più grandi, spacconcelli, possibilmente con rombanti motorini nuovi di zecca.
SALE DA BALLO IMPROVVISATE
Nonostante questo senso di superiorità, ci adattavamo a quello che passava il convento e ci ritrovavamo spesso, con quegli stessi compagni di classe dall’aria sfigata, nel seminterrato della villetta di uno di loro, per dei pomeriggi danzanti molto divertenti.
Ero rimasta tappata in casa fino a quel momento e, quasi di punto in bianco, potevo fare cose che mai avevo fatto prima.
La casa in cui ci ritrovavamo, dal punto di vista di mia madre, era tranquilla ed affidabile, le famiglie di tutti i compagni erano anch’esse “affidabili”, dunque era tutto a posto: via libera!
Durante quei pomeriggi trascorsi tutti insieme avemmo, per la prima volta nelle nostre vite, la possibilità di sperimentare i sentimenti, o qualcosa di molto simile: provammo l’emozione dei primi balli tra noi, dei primi “lenti”, quelle canzoni che ci permettevano, per la prima volta, un contatto fisico prolungato. Mai sperimentato prima nulla di simile, prima. E, infatti, vedevamo l’ora che arrivasse il sabato, per ritrovarci tutti insieme in quella stanza, riadattata a sala da ballo.
Noi ragazze ce ne stavamo dapprima in disparte, magari in un angolo, a chiacchierare, i ragazzi formavano a loro volta un gruppetto rumoroso e schiamazzante da un’altra parte.
Improvvisamente qualcuno provvedeva a spegnere la luce, il giradischi cominciava a suonare, davanti ad ognuna di noi arrivava un ragazzo che la invitava a ballare, si poteva accettare, oppure no. Cercavamo di essere gentili e di ballare di tutti, senza fare le schizzinose.
Un mondo totalmente nuovo di sensazioni, era quello che ci trovavamo davanti.
Sentire per la prima volta quelle dita maschili, un po’ tremanti e calde, che si poggiavano delicatamente sulla stoffa della camicetta poteva essere un bell’impatto: fino a quel momento, coi maschi avevamo solo scherzato e litigato! Durante il ballo, nessuno osava avvicinarsi all’altro più di tanto, ci si sfiorava appena, perché l’educazione che avevamo ricevuto la faceva da padrona, ma l’effetto complessivo noi generava una euforia sconosciuta.
Esisteva una nuova fauna, uguale e contraria a quella di noi ragazze, e questa fauna sembrava davvero interessata a noi.
In quegli anni, in paese, fu tutto un fiorire di ritrovi simili, dove i ragazzi, coetanei tra lori, si riunivano per stare insieme.
Negli scantinati del borgo o del quartiere medievale molti gruppi si trovavano per ascoltare musica, ballare o suonare. Tutti li chiamavano – un po’ pomposamente – “club”. In realtà si trattava di locali, spesso pieni di muffa e immondizia di ogni tipo, ai quali veniva data frettolosamente una ripulita, quel tanto che bastasse a renderli un minimo accoglienti.
Ogni “club” era diverso dagli altri. In alcuni c’erano ragazzi più grandi, ma simili agli amici con cui ballavo ogni sabato, altri avevano caratteristiche diverse. Erano più trasgressivi. Contro di loro si agitava minacciosa la disapprovazione degli adulti, in particolare dei miei genitori. Correvano voci imprecisate su ragazzi più grandi di noi che in quei “club” si riunivano per fumare, “per fare quelle cose” (quali, poi?) e questo creò enorme scalpore e scandalo in paese.
I miei genitori ammonivano e minacciavano. Guai, ad avvicinarsi a “certi gruppetti”! La punizione sarebbe stata severissima. Il mondo stava andando velocemente verso mille rivoluzioni, ma non erano ancora arrivate in paese e, viste da lontano, generavano solo diffidenza e preoccupazione.