Con lo Statuto del 1251 Viterbo si era data quattro Camerlenghi comunali, uno per ogni porta cittadina. Restavano in carica un anno solare (un trimestre ciascuno) al termine del quale dovevano presentare il conto del loro operato. Cioè erano impegnati a stilare un bilancio dettagliato. Il Camerlengo era, in sostanza, il ministro dell’economia cittadina cui spettava l’onore, ma pure l’onere, di decidere come impiegare le risorse pubbliche. Dunque, occhio ai risparmi, agli investimenti, alle spese militari, però anche ai gioghi pubblici, alle feste popolari, che non dovevano mai mancare e possibilmente essere ad alto gradimento. La regola latina del “panem et circenses” non era stata mica un’invenzione del Medioevo. Funzionava da secoli e ovunque. Il Camerlengo di turno lo sapeva benissimo e ne teneva conto al momento di aprire i cordoni della borsa per finanziare la “tre giorni” di giochi che si teneva nell’ultima domenica di Carnevale: corsa del Palio, corsa dell’Anello e corsa nel sacco, in tre giornate successive. La prima competizione era aperta a tutti, locali e “forestieri”, purché questi ultimi non fossero considerati nemici di Viterbo. I cavalli venivano agghindati con variopinte gualdrappe, confezionate per settimane da laboriose casalinghe per conto di ambiziosi cavalieri, spesso autentici professionisti dei tornei. Il premio era in denaro, ovviamente, accompagnato dal casto bacio di una splendida damigella. Il mito della sfortunata Galiana era un vanto della beltà viterbese. Il secondo giorno si disputava la festa dell’anello, competizione popolarissima, che si decideva in base alla bravura del cavaliere di turno nel centrare e far suo un anello, appunto, con un colpo ben assestato in punta di lancia. Premio in denaro, anche in questo caso, ma pure un ben di dio da mangiare, un montone per incrementare il futuro fatturato del gregge e una congrua ricompensa in pepe che oltre ad avere proprietà afrodisiache era moneta di scambio magari impropria, ma in corso legale, tanto da essere usata per pagare gli affitti, gli acquisti, le imposte, i debiti. Il terzo ed ultimo giorno era quello dedicato alla corsa nel sacco. Gara open, si direbbe oggi. Cioè aperta a tutti. Bastava dotarsi di un sacco ai piedi, elmo e scudo, e il concorrente si lanciava all’inseguimento di galline e tacchini, sguinzagliati lungo le vie rionali o nei campi. Il premio era, naturalmente, la preda che finiva nelle mani del fortunato inseguitore. Tante cadute e altrettante rincorse tra le risate degli spettatori. In privato, i giochi più praticati erano scacchi, carte, dadi. Si giocava un po’ ovunque: nei crocicchi, agli angoli delle piazze, nelle strade meno frequentate perché era assolutamente vietato farlo nelle osterie e nei ritrovi pubblici. E, soprattutto, era proibito il gioco d’azzardo anche se la norma era facilmente aggirata e aggirabile. Chiaro, stiamo parlando di svaghi ai quali si dedicavano soprattutto i ceti più popolari mentre i ricchi, i nobili, i borghesi di censo elevato trascorrevano il loro tempo libero in attività sicuramente più raffinate, come la caccia e i lauti simposi allietati da cantori e giocolieri. Per questi ultimi era vietato drasticamente l’ingresso in dimore private a meno che non fossero espressamente chiamati dai padroni di casa. Introdursi nelle abitazioni senza invito poteva costare un’ammenda di 20 soldi. A distanza di secoli, viene da chiedersi come l’avrebbe presa il mitico giullare Frisigello, o Fisigello, ricordato in un angolo del portico della chiesa di Sant’Angelo in Spatha e che viene annoverato tra le sei “nobiltà” viterbesi.
Viterbo 1251:nel bilancio giochi pubblici e feste popolari, proibito il gioco d’azzardo
di Luciano Costantini